Vent’anni di W.i.t.c.h.

W.i.t.c.h. numero 1, cover di Alessandro Barbucci e Barbara Canepa

Di solito i compleanni si festeggiano quando il festeggiato è in buona salute e può sedersi al tavolo, altrimenti sono commemorazioni. Però un fumetto come questo è davvero difficile da ignorare, nel bene e nel male.

Cosa ricordo di W.i.t.c.h? Che era un fumetto figlio di Pk, innanzitutto. E Pk fu probabilmente la cosa più importante avvenuta nello scenario fumettistico Disney negli anni 90. L’arrivo di un suo “contraltare” femminile non era una cosa che si potesse davvero ignorare. Certo, l’idea in partenza non è che fosse originale: un shojo manga all’italiana, realizzato da autori Disney. Ma è proprio in quella declinazione stilistica che si celava il senso di tutto. W.i.t.c.h., con la sua impostazione grafica, creò lo stile “euromanga”, che venne felicemente esportato in altre produzioni, disneyane e non, e addirittura oltralpe, dando una scossa allo scenario fumettistico europeo. Ci si sarebbe potuto fare davvero tanto di più con l’energia scaturita da lì, e invece ne uscirono perlopiù fumetti “di genere” o fumetti sperimentali che però rimanevano spesso e volentieri incompiuti. Però, oh, avercene.

Poi c’è la mia storia personale con W.i.t.c.h., e ripercorrerla fa un po’ male. Ero un Pker e uno studioso disneyano già allora, per cui non potevo certo rimanere impermeabile al fenomeno. Lo seguii sin dal primo numero, rigettando il marketing “sessista” (è un fumetto per ragazze!!!1) che nel mondo inclusivo di oggi suonerebbe inaccettabile. Per quanto possibile ignorai le rubrichine e i gadget femminili – ricordo che mi trovai a spacchettare il #2 dentro il bagno della scuola perché per la prima e unica volta in vita mia provai vergogna – e badai al sodo. E il sodo erano buone storie a fumetti, firmate da Artibani, Enna, Barbucci, Turconi e Radice, tutti autori che seguivo e amavo di base, e di cui avrei seguito il percorso anche dopo. Addirittura devo ammettere che sebbene dica sempre che il Sollazzo stesso derivi dalla community di Pk, fu il forum di W.i.t.c.h. (di cui ad un certo punto divenni admin) ad essermi servito come “base tattica” per dare inizio concretamente alla cosa.

Con W.i.t.c.h. cuccavi. Lo leggevano le ragazze e quindi si prestava particolarmente a tale scopo. E poteva succedere che cuccassi in real life o su internet. Ho avuto un gran numero di storie con ragazze cominciate grazie a questo fumetto. Il pattern era sempre il solito, comunque: gli utenti del forum di Pk invadevano periodicamente il forum di W.i.t.c.h. facendo i bulli e i gradassi. Tiravamo le trecce alle ragazze, che fingevano di averne fastidio e invece poi no. Le si conquistava chiacchierando per davvero di fumetto, e spesso si usava W.i.t.c.h. come porta per “iniziarle” ai misteri di fumetti d’altro tipo. Funzionava sempre, e le storie nate in questo modo spesso diventavano molto serie, in alcuni casi sfociando nel matrimonio (!). Erano giorni bollenti, in cui ci si corteggiava a suon di recensioni, chiacchiere con gli autori (Teresa Radice era sempre con noi), post fiume in cui si fingeva di parlare di W.i.t.c.h. per dirsi altro. Spesso si faceva un percorso “insieme” crescendo e affinando il proprio gusto, a volte finendo per prendere nettamente le distanze dallo stesso fumetto che ci aveva uniti.

Cover di Mirka Andolfo, per W.i.t.c.h. Art Edition numero 3

Ecco, sì, finiva sempre così, con W.i.t.c.h. che veniva accantonato, smesso o fortemente criticato. A volte a ragione, a volte a torto. Ma spesso e volentieri a ragione. Perché purtroppo, al netto della nostalgia, la saga di Wi.t.c.h. non andò a finire bene e conobbe un graduale decadimento che lo rese qualcosa di molto diverso dalle premesse iniziali, trasformandolo da frontiera stilistica euromanga a frivolo rotocalco. Non amo quelli che “una volta era tutta campagna”. Secondo me il livello rimase alto a lungo, con buona pace di chi già lo criticava allora. I primi cinque archi narrativi, con alti e bassi, continuavano ad essere (volevano essere!) fumetto di livello, senza compromessi e con una buona qualità generale. Col senno di poi devo dire che se vogliamo mettere un confine all’epoca d’oro, sarebbe lì, prima del ciclo dei Ragorlang. Dal sesto arco inizia invece una trasformazione che durerà poi anche nel settimo e nell’ottavo. Quelle tre stagioni di W.i.t.c.h. resero chiaro che si voleva cambiare la natura del prodotto. L’approccio da frivola rivista adolescenziale divenne preponderante e il fumetto stesso iniziò ad accusare il colpo, andando in palese discontinuità con sé stesso.
La metafomorfosi si compì nel centesimo numero, dove iniziò l’ultima fase della sua storia editoriale, il concetto di arco narrativo o di stagione vennero definitivamente meno, le storie diventarono brevi e autoconclusive come se si trattasse di un soft reboot. Tenni duro a lungo ma fu proprio il centesimo numero il momento in cui saltai giù dal treno, di comune accordo con la mia ragazza di allora. I presupposti con cui era iniziato tutto quanto vennero definitivamente meno. Feci un salto in edicola tre anni dopo per acquistare l’ultimo numero prima della chiusura e la mia triste impressione venne confermata.

Chissà, forse la Disney italiana non era pronta a gestire un tale successo nato in maniera così imprevedibile. Il marketing ci mise il becco in cerca di risultati sul breve termine, danneggiandolo invece sul lungo. Come spesso accade, d’altronde. Mi piace pensare che in un altro contesto e in un’altra epoca, oggi avremmo festeggiato a testa alta. Celebriamolo pure W.i.t.c.h. ma con un sapore strano in bocca. Per quello che poteva essere e non è stato, per il modo in cui le cose sono andate a finire e per il carico di ricordi dolci e amarognoli che questi vent’anni si portano dietro.

Disegno di Alessandro Barbucci, colori di Barbara Canepa