Samurai Jack

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Samurai Jack non era un figlio dei suoi tempi. Era l’anno 2001, e l’animazione attraversava momenti di insicurezza. Disney aveva smesso di essere sotto i riflettori come negli anni Novanta, impantanata com’era nel periodo “sperimentale” che ci ha regalato Atlantis e Il Pianeta del Tesoro. In compenso Dreamworks aveva approntato un filmicino chiamato Shrek, che fece la sua fortuna ridicolizzando la casa rivale nel suo momento di debolezza e piallando la dignità del film animato negli anni a venire. Una situazione simile si poteva riscontrare in televisione, dove il nuovo volto dell’animazione “per adulti” erano il cinismo dei Griffin e la politica dissacrante di South Park, e l’unica altra vera star era il neonato Spongebob Squarepants, che troneggiava su dozzine di altri cartoni che imperversavano nelle tv per ragazzi e non avrebbero mai raggiunto il successo della spugna. Roba di cui si ricordano solo gli appassionati.

L’autore della serie, Genndy Tartakovsky, per sua stessa ammissione non è il più eccelso degli artisti. Per compensare, ha dovuto fare suoi i principi della semplificazione: i suoi personaggi sono forme, blocchi di colore, caricature portate all’estremo. Lavorare con figure così semplici tuttavia lo porterà a sviluppare le sue doti più apprezzate: pacing e regia. Queste abilità erano ben presenti già dai tempi del suo debutto, quando Genndy le usava per ottenere tempi comici esilaranti nel suo primo lavoro, Il Laboratorio di Dexter, o per raffinare l’azione delle Superchicche dell’amico Craig McCracken.

Ma la dote migliore di Genndy è la capacità di credere nel suo medium. Appassionato di animazione giapponese e non, Tartakovsky guarda al cartone animato come mezzo e non come genere, e portare questa visione in TV, dove tutto tende ad essere per forza di cose ridotto al minimo comune denominatore, non è compito da poco.

Il risultato degli sforzi di Tartakovsky è un cartone che narra la storia di un principe del Giappone feudale, che durante uno scontro col demone Aku viene scagliato in un portale che lo trasporta nel futuro, dove Aku ha schiavizzato il mondo. Nel futuro apocalittico, il nuovo arrivato viene salutato dalle popolazioni oppresse come un liberatore, e da queste ultime riceve il soprannome di Samurai Jack, l’unico in grado di distruggere Aku con la sua spada sacra, ritornare nel passato per cambiare il corso della storia e combattere le forze del male.

Si tratta di un cartone action, certo non una rarità, dato che spesso questo genere viene legato ad un IP supereroistico o all’ancora più basso compito di promuovere merchandising, e in generale ad un immaginario puramente hollywoodiano. Jack invece trae spunto da diversi generi filmici, dall’ovvio omaggio ai samurai a citazioni più sottili al western, per creare uno stile tutto suo, fatto di atmosfere solenni contrapposte a scene di azione frenetiche. Il focus degli episodi sono le avventure a base di arti marziali affrontate da Jack. Grazie alla varietà infinita di luoghi e creature che offre il futuro postapocalittico di Aku, a metà tra un mondo cyberpunk e una terra fantasy ricca di luoghi mistici e scenari selvaggi, la serie si sbizzarrisce nel declinare le abilità del protagonista nei modi più svariati.

Trattarsi come un film di samurai, incentrato sui combattimenti dal registro epico, si rivelò il punto di forza di Samurai Jack in un palinsesto popolato da commedie slice-of-life dissacranti. Ciononostante, la serie si mantiene negli standard dei prodotti Cartoon Network, e infatti l’umorismo resta, permeando i momenti più leggeri grazie a personaggi buffi e carismatici. Non sfigurano i protagonisti: Jack, stoico, ingenuo e virtuoso all’inverosimile, spesso si ritrova vittima degli eventi e funziona da straight man per il resto del cast. Anche Aku, che pure è un essere di puro male, è deliziosamente infido ed esuberante, grazie anche al divertentissimo doppiaggio di Mako Iwamatsu, che gli conferisce la sua caratteristica voce profonda e scandita.
Anche lo stile della serie resta cartoonoso e caricaturale, pieno di finezze come colorare Aku e le sue forze di nero pece o vestire Jack solo di un gi bianco per comunicare istantaneamente allo spettatore i loro ruoli.
La stessa cosa si può dire del formato: stiamo parlando pur sempre di una serie episodica in stile monster of the week, dove ogni episodio narra una diversa avventura, senza una trama orizzontale forte.
Questa decisione deriva dalle politiche dei network per ragazzi. Business vuole che le serie non raccontino storie compiute, ma si limitino ad offrire carrellate di materiale leggero ed autoconclusivo da mandare indefinitamente in replica senza il rischio che gli spettatori perdano interesse in una serie dopo averne visto il finale. Così, dopo quattro stagioni, gli autori decidono che è tempo di passare ad altro e Samurai Jack muore nel 2004, senza che sia mai stato pensato un finale vero e proprio, come tanti altri cartoni per ragazzi.

Eppure il progetto di Tartakovsky è sempre stato qualcosa di più. Nel corso della produzione, lo staff ha sempre ricavato il più possibile dalle limitazioni, aggirandole o… valorizzandole. Lo stile minimalista della serie, ad esempio, è il suo punto di forza, e permette di accentuare le coreografie nelle scene d’azione: il sapiente mix tra personaggi semplici e colorati vivacemente e i paesaggi stilizzati crea l’impressione di un quadro astratto in movimento. La regia del cartone è molto cinematografica e gioca con inquadrature, angoli e colori. Ogni scena è pensata per offrire il massimo dal punto di vista visivo, soprattutto negli episodi chiave come il pilot, in cui assistiamo all’infanzia di Jack, la distruzione del suo villaggio da parte di Aku e il lungo addestramento che ha dovuto intraprendere in giro per il mondo prima di poterlo sfidare per la prima volta. Tutto di questo episodio è gigante: i viaggi di Jack, le diverse culture che incontra, il drammatico ritorno a casa in cui trova la sua gente in catene, il viaggio nel futuro e la prima battaglia con i droni di Aku. Insomma, pur mantenendo i suoi personaggi piacevoli e anche comici quando necessario, la serie non ha mai paura di prendersi sul serio, offrendo sia un’avventura genuina per i ragazzi di dieci anni fa, sia un ottimo repertorio di limited animation per gli esperti. Un’opera che può piacere a tutti.

Era dunque naturale che prima o poi, entrambe le categorie di spettatori chiedessero un finale. Lo stesso Genndy era aperto all’idea, e i suoi fan sarebbero stati più che contenti di vedere un grande dell’animazione di nuovo in azione, specialmente dopo che i suoi ultimi progetti, tra cui Sym-Bionic Titan e il film di Popeye, sono stati tutti uccisi sul nascere.

Arriviamo al 2017. I grandi ritorni sono una moda ormai e sul Sollazzo se ne è parlato più volte. In un universo che resuscita opere che spesso stavano bene dov’erano, non aveva senso non riportare una serie amata che al contrario, non aveva nemmeno detto tutto quello che aveva da dire. Il pubblico voleva vedere Jack tornare a casa. Senza contare che ultimamente si sta riscoprendo il gusto delle storie compiute, anche e soprattutto in tv grazie a Netflix, e l’animazione non è da meno. Forti dell’esempio tracciato da lavori come Adventure Time, sempre più animatori tentano la strada delle serie animate autoriali e dotate di trama orizzontale, un processo che ha già portato a termine prodotti bene apprezzati come Gravity Falls e Over The Garden Wall. In questo clima favorevole, Samurai Jack era pronto per ritornare, con una ministagione sul blocco Adult Swim per animazione “matura”, quasi a voler venire incontro a chi guardò la serie anni fa da ragazzo, con un nuovo stile più elegante e pulito, una nuova colonna sonora, nuovi personaggi, e soprattutto la promessa di concludere ciò che era stato lasciato a metà.

È difficile far tornare un franchise amato dopo tanto tempo. Occorre richiamare i vecchi fan, attirarne di nuovi, riprendere il discorso della storia vecchia e allo stesso tempo scrivere una storia nuova che stia in piedi da sola. Ma è importante in primis restare fedeli allo spirito originale dell’opera anche e soprattutto nell’intenzione di espanderla e rinnovarla.

Senza entrare troppo in territorio spoiler, la quinta stagione ci catapulta di nuovo del mondo di Samurai Jack dopo che cinquanta anni sono trascorsi, durante i quali Jack ha smesso di invecchiare a causa del suo viaggio nel tempo. Nell’arco della storia viene esplorato l’effetto che gli interminabili anni di lotta hanno avuto sulla psiche di Jack, nonché l’effetto negativo della rabbia e della frustrazione, in un story arc di redenzione che non sarebbe stato possibile scrivere nella serie originale. L’avventura di Jack ha finalmente un finale agrodolce, e il tutto è compattato in soli dieci episodi che, pur con un po’ di fretta, riescono a concludere la trama principale e narrarne pure una secondaria, creata appositamente per la stagione. La stagione si rivela perfettamente in grado, inoltre, di trascinare le emozioni dello spettatore: questi dieci episodi risultano degni al 100% di comporre il finale di Samurai Jack, a dispetto del lungo lasso di tempo trascorso. Non è scontato farcela, dato che molti revival, tra cui ad esempio quello – pur gradevole – di PK, iniziato da qualche anno su Topolino, spesso faticano a continuare armoniosamente le loro storie d’origine, oppure cadono nel tranello di riprendere meccanicamente il vecchio senza aggiungere qualcosa di davvero nuovo.

È un peccato, dato che il riavvio di storie incompiute, oltre ad avere il potenziale di creare tanto buon materiale, serve anche a inviare il messaggio che le storie ben curate e omogenee piacciono, e che non bisogna avere paura di abbandonare la strada più semplice e commerciale, pur di produrre opere che abbiano qualcosa da dire e la possibilità di dirlo con modalità piacevoli. Una lezione valida anche e soprattutto nel mondo dell’animazione, che, ottimisticamente sperando, è sulla lenta via dell’emancipazione dagli stereotipi.