Wandavision

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Questa mattina ho assistito al finale di Wandavision. Mi è piaciuto. E non poteva essere altrimenti, considerati i valori produttivi in gioco. Di Wandavision si è parlato molto negli ultimi tempi, e a ragione. E adesso che è finita, proviamo a valutarla nel complesso, adottando una… “visione” d’insieme. Si tratta di una serie decisamente degna di nota, e questo per almeno tre ragioni.

1. Perché è innegabilmente bella. Intelligente, emotiva, ben girata, divertente. La qualità è alta: sia nella forma che nella sostanza. Sa acchiappare, straniare, disattendere, rassicurare, giocare con le emozioni dello spettatore.

2. Per quello che rappresenta all’interno del Marvel Cinematic Universe. Sui Marvel Studios è sempre pesato un po’ il pregiudizio della cinematografia di genere. Fanno i film di supereroi, con tutto quello che comporta. Negli ultimi anni si è colta però una certa irrequietezza, una volontà di andare oltre stilemi e linguaggi codificati. Wandavision è il punto di arrivo di questo percorso. Sitcom, horror, musical dalle venature lynchane, c’è di tutto. C’è la voglia di fare di testa propria, c’è la capacità di farsi percepire in modo diverso. C’è desiderio di narrare, in modo assoluto e senza condizionamenti.

3. Per quello che rappresenta per l’intrattenimento. Prima cinema e tv procedevano su binari spesso divergenti. Persone diverse, strutture diverse, linguaggi diversi, qualità diversa. Da quando I Marvel Studios hanno soppresso la loro divisione televisiva si è innescato un processo di “unificazione qualitativa” che ha investito tutte le branche della Disney Company. The Mandalorian, le future serie Pixar e WDAS sono/saranno il frutto di tutto questo. E grazie a Disney+ (e… a una pandemia), la barriera tra I due mezzi è definitivamente crollata. Wandavision non è una delle tante serie tv targate Marvel, ma è il primo “film” della Fase 4. Non un prodotto di seconda fascia, ma il nuovo portone d’accesso principale al MCU. Il nuovo modo attraverso cui lo studio di Kevin Feige ha scelto di esprimersi.

Come già avevo fatto per Mandalorian, tento di ripercorrere questi nove episodi. E attenzione che da qui spoilero.

All’inizio siamo rimasti spiazzati tutti. Una sitcom, gli anni 50, poi gli anni 60, infine gli anni 70. Il primo trittico di episodi riproduceva perfettamente la forma e lo stile delle relative sitcom coeve. In tutto: negli scenari, nello stile recitativo, nelle scelte cromatiche, nelle colonne sonore. Qua e là dei glitch, delle interferenze esterne, dei momenti inquietanti che facevano salire la curiosità e l’angoscia. Ma erano momenti brevi, brevissimi, così brevi che a tratti lo spettatore… finiva davvero per credere che la serie fosse persa nella sua stessa finzione. Perché se fingi di fare una sitcom e quello che presenti… è davvero una sitcom di una ventina di minuti ad episodio… forse hai fatto una sitcom. Una scelta inconsueta, sfidante e… educativa per il pubblico. Che ha dovuto imparare a concentrarsi, a farsi bastare quei piccoli dettagli fuori controllo elargiti col contagocce, a portare pazienza. E nel frattempo a notare altro: l’arte, la perfetta recitazione della Olsen. Ad alcuni tutto questo ha ricordato Twin Peaks, ad altri Lost. E in effetti, un momento come quello in cui Monica viene scaraventata fuori dalla città sulle note di “Daydream Believer” (1968) non può non ricordare quei pazzeschi contrasti avuti con “Make Your Own Kind of Music” e “Downtown” ai tempi dell’Isola. Percettivamente, è stato un grandissimo momento di televisione per tutti.

Col quarto ci hanno fatto rientrare nei ranghi, uscendo dall’illusione e mostrandoci il “vero” Universo Marvel, in questa sua nuova incarnazione televisiva. Monica Rambeau, Darcy, lo S.W.O.R.D., Darcy, Jimmy Woo, Darcy, poi pure Darcy che davvero qui fa il grande balzo da comparsa a personaggione di cui tutti ne vogliamo ancora. Una fotografia pulita, una consapevolezza narrativa e tutto l’orgoglio di chi si presenta al pubblico dopo aver fatto la storia del cinema con Endgame. E in quest’ottica ripartire con la conclusione del Blip, un momento così importante e iconico è stato davvero intelligente. Ancora vibrazioni lostiane, con il ripercorrere dettagliato di tutti i glitch, ma visti da un’altra prospettiva (Ricordate “Gli Altri 48 Giorni”?). Uno spiegone, ma uno spiegone dovuto e di classe. Nei successivi siamo tornati a Westview e abbiamo ripercorso gli anni 80 e 90, ma questa volta alternando interno ed esterno, cambiando continuamente formato (le bande nere, facciamoci caso) e linguaggio, portando avanti un gioco metanarrativo di livello altissimo, culminato con l’arrivo del “Pietro sbagliato”. Col senno di poi non si trattava di chissà quale crossover tra MCU e Universo Fox, ma di un easter egg, geniale nella sua consapevolezza del difficile problema di diritti che ha vessato per anni il marchio Marvel.

L’ultima tripletta ha causato sconquassi. Il settimo episodio ci ha portati negli anni 00, chiudendo l’esperimento “formale” con quell’ultimo colpo di coda che è stato la canzoncina “Agatha All Along”, diventata immediatamente un fenomeno virale. Simbolo della lucida schizofrenia creativa che ha dato origine allo show, questo accento sulla musica era “dovuto”, considerato anche i nomi in gioco, ovvero i coniugi Lopez e Christophe Beck, lo stesso team dietro alla colonna sonora di alcuni fra i più grandi successi Disney recenti. Per scrittura e messinscena, è probabilmente il penultimo episodio ad aver raccolto maggiormente quanto seminato fin qui: l’intera storyline di Wanda è stata ripercorsa, rinarrata attraverso una serie di flashback che hanno nell’ordine: reso palesi le eredità artistiche e culturali a cui questa serie guarda (mai avrei pensato di trovare il caro Dick Van Dyke nel mondo Marvel), potenziato narrativamente quanto visto di sfuggita nei film Marvel, trasformando lievi cenni in momenti emotivamente potenti (Wanda nell’Hydra, Wanda con gli Avengers) e infine fatto letteralmente “esplodere” il nocciolo emotivo serbato fin qui, nella meravigliosa sequenza muta che ci ha mostrato l’arrivo di Wanda a Westview.

Il finale… bé, ci sono due modi di guardare questo finale. Se ci si aspetta altri capovolgimenti formali e stilistici, se si è passato tempo a fantasticare e a farsi teorie su dettagli o elementi iconici, si rimarrà delusi. E’ già successo in passato con serie molto amate, per questa non sarà diverso. La carne al fuoco è stata cotta la settimana prima, le pedine sono state disposte e nell’ultima ora fanno quello che devono fare: muoversi, nel modo più dolce ed emotivo possibile. Un finale molto poetico, che ci fa però rientrare nei ranghi dai quali eravamo partiti. E credo vada bene così.

E’ stata una serie bellissima. Per i motivi detti sopra, ma a cui ne voglio aggiungere un altro, puramente personale, da appassionato disneyano quale sono. Molto si è detto sulla Disney che compra cose e le snatura, e molto si è detto anche sull’ipotesi opposta ovvero sulla Disney che compra cose e SI snatura. Wandavision penso sia la risposta che volevamo un po’ tutti. I Lopez e la stessa showrunner hanno lavorato ai WDAS, e questa non è una cosa secondaria. Lo show nella sua interezza dimostra una grande sensibilità, un’attenzione per il comparto visivo e musicale e un desiderio di citare e onorare linguaggi e stili anche molto distanti dal consueto, rielaborandoli in modo intelligente e spesso coraggioso. E’ una Marvel-Disney che contamina e si fa contaminare, che dà lezioni e ne apprende altrettante, rubacchiando nei punti giusti e riuscendo così a crescere. Ma soprattutto – e qui forse Feige ha fatto propria la lezione di Disney meglio di chiunque negli altri reparti – è una Marvel che dimostra un incessante desiderio di andare avanti.

WandaVision - Serie TV (2021)