Il Drago di Spade

Mi sbilancio su House of the Dragon, ora che è finita la stagione.

Promossi in buona parte gli attori, specialmente il povero re bonaccione. Una sorpresa la giovane Rhaenyra, magnetica e sbarazzina, con quel tocco di morboso. Ma in generale tutti volti molto caratterizzati e con un’ottima presenza scenica. Alcune sequenze davvero molto valide, e in generale tutte quelle che coinvolgono i draghi, usati sempre bene e mai a caso. Un prodotto solido, fatto con mestiere e… temo di non avere molto altro di positivo da dire.

Già, perché al netto della sua oggettiva qualità, penso che House of the Dragon abbia rappresentato per me uno dei più grandi turnoff di sempre, tanto da farmi dubitare della mia passione per l’universo creato da Martin.

Un po’ me la sentivo, eh. Io e Martin avevamo bisticciato già in tempi non sospetti. Difficile non bisticciarci quando arrivi a leggere cose come il quarto e il quinto libro, infelici pietre tombali dell’avventura letteraria di Westeros. Difficile accettare un comportamento del genere: un autore all’ossessiva ricerca del dettaglio genealogico fine a sé stesso che finisce per perdersi totalmente nella sua stessa ragnatela al punto di non poter più proseguire la sua storia. E che invece di volersene liberare preferisce cullarcisi, scrivendo prequel e spinoff mentre là fuori il suo mondo brucia. Ingiustificabile.

Apprezzai il finale di Game of Thrones all’epoca. Mentre la rete si impegnava nella shitstorm del momento ai danni dei due showrunner, costruendo un inferno mediatico da cui non ci siamo ancora ripresi, io ne apprezzai i risvolti. Certo, mi accorsi del cambio di passo, ma qualsiasi variazione di ritmo, anziché farmi arrabbiare la ritenni un semplice effetto collaterale dell’orrendo casino in cui ci aveva cacciati Martin stesso, con le sue mille trame e i suoi mille personaggi che non portavano da nessuna parte e che andavano assolutamente sfrondati, una volta capita la truffa.

Difesi strenuamente il risultato, ma pensai anche che ormai quell’universo lì aveva decisamente dato. Non sentivo certo il bisogno che a così breve distanza di tempo se ne ricavasse già un franchise. Per adattare cosa, poi. Un libro sulle lotte intestine della genealogia Targaryen, scritto negli anni in cui sarebbe dovuto uscire il seguito della storia? Praticamente come erigere un monumento al tumore che uccise A Song of Ice and Fire.

Ma gli affari sono affari, e a quanto pare produrla è stato un buon affare perché alla gente è piaciuta, e non sono pochi quelli che appena iniziata hanno subito ripreso a seguire il gioco del trono, come se fosse semplicemente ricominciato il campionato. Dopotutto i nomi delle squadre grossomodo quelli erano, con giusto qualche ritocco alla formazione. House of the Dragon ha permesso alle persone di tornare a giocare al gioco del pettegolezzo, del tradimento e delle famiglie disastrate, raccontando una soap fantasy con un retrogusto shakespeariano, che – si sa – aiuta a nobilitare un po’ tutto.

Ma al netto di questo, io ho sentito morire qualcosa dentro. Il ritorno della sigla tanto amata, riproposta 1:1 ma messa al servizio di una storia così… piccina e di respiro limitato mi è parso quasi uno scherno. Game of Thrones era bello perché ti parlava di grandi cose, minacciava terrificanti apocalissi e mirabolanti magie salvo poi ricordarti che al centro della storia c’era in realtà un mondo di omuncoli con i loro meschini bisticci. Nella tensione tra queste due dimensioni della narrazione stava tutto il senso dello spettacolo. House of the Dragon elimina in partenza qualsiasi pretesa di grandiosità, toglie di mezzo il primo strato e punta dritto a quel nocciolo meschino, e così facendo rinuncia al contrasto. E questo fa sorgere parecchi dubbi sulla sua adeguatezza come prequel, e in generale su quanto abbia senso approfondire una lore basata su scaramucce tanto sterili. Perché a meno che non si decida di spostare la lente su cose molto metafisiche, magari collocate molto avanti o molto indietro nel tempo, alla fine è questo il genere di cose che troveremo frugando nella lore di Westeros ed è questo che a conti fatti interessava davvero a Martin: scrivere i garbugli genealogici tra casate, mettere in scena qualche Targaryen di nome Aegon, Aegis o Viserys e narrare storie di pretesa al trono inducendo lo spettatore a prendere nota del numero di gravidanze di ogni giocatrice. E a me purtroppo tutto questo pare poca cosa.

Ecco perché roba del genere puoi anche farmela gran bene, come del resto è stato, ma il campanellino dentro di me ormai è suonato. E la stonatura purtroppo la sento. Certo, è una stonatura legata a elementi che non sono propriamente nell’opera e che nemmeno si può dire la rovinino. Però sono nel franchise, che non è un concetto da ignorare, poiché la prima ragion d’essere di una serie come questa è vendermi appunto un franchise. Solo che a sto giro non mi sento più così sicuro di volerlo comprare.