Riflessione amara sugli Oscar 2020

Non c’è occasione migliore degli Oscar per dare voce a quel bisticcio tra poveri che è la gara del film d’animazione preferito. Non intendo in alcun modo nascondere che la storica bandiera per cui da sempre faccio il tifo sono i Walt Disney Animation Studios. Lo studio più vecchio, glorioso, ricco, ma anche frainteso, dato per scontato e messo ingiustamente in disparte. Amo i WDAS, mi rispecchio in buona parte delle loro scelte estetiche e narrative, mi compiaccio del loro successo ma soffro come un cane nel vederne sminuiti i lavori. Scegliersi un pubblico così vasto come… “tutti” ti mette nella scomoda situazione di essere schifati da un certo tipo appassionati di cinema. L’animazione Disney è un’arte a sé, segue delle regole molto complesse e di difficile lettura. E infatti lo spettatore non è tenuto a decifrarle, ma ne avverte i benefici sottopelle. Insomma, un tipo d’arte del tutto inadatto a competere agli Oscar. Detto questo, è stato un vero sputo in faccia allo studio l’esclusione di Frozen II. Ce la si poteva aspettare, però. Frozen II non fa simpatia, concettualmente parlando. E questo purtroppo viene prima di qualsiasi altra considerazione. Chi scrive ha amato Frozen II, e non di un amore superficiale. In Frozen II ho trovato un’intensità narrativa, una padronanza del mezzo visivo, un’ambizione nel voler costruire un sequel in grado di sembrare davvero un atto secondo e non una sterile appendice, una maturità artistica davvero impressionanti.

Al contrario, ho trovato nel vincitore effettivo, Toy Story 4, un manuale perfetto su come non fare un sequel. Mi è dispiaciuto molto, ovviamente. Tenevo molto a Toy Story e alla Pixar e ancora fatico a definirlo un brutto film. Ma è un film sbagliato sotto molti, moltissimi aspetti. Ridondante la sua esistenza, ripetitivo lo svolgimento, superficiale nella trattazione delle sue tematiche, sgraziato nell’evoluzione dei suoi personaggi. Un vero passo falso, che va a rovinare il trittico originale. Laddove Frozen II sembra essere un film che prima di entrare in produzione si è fatto delle domande e si è dato le risposte giuste, Toy Story 4 è figlio del caos che ha colpito la Pixar durante la fuga di Lasseter. Eppure l’Academy non è andata troppo per il sottile e l’ha fatto vincere, attirandosi addosso l’accusa di servilismo disneyano. Ecco, io questo non lo penso. Perché se la Disney avesse dovuto comprarsi l’Oscar, avrebbe anche impedito che il “suo” Frozen II venisse umiliato a quel modo. Rimangono due scenari possibili: 1. Che si sia voluto dare un segnale rasserenante allo studio di Emeryville, che deve passarsela davvero molto male dopo i recenti accadimenti. 2. Che malgrado gli anni trascorsi, si continui a ritenere per inerzia la Pixar come il volto “socialmente accettabile” della Disney, quello da premiare meccanicamente per andare sul sicuro.

Eppure la soluzione per evitare di dare un premio così grossolano e allo stesso tempo fare pure un figurone c’era, ed era Klaus. Il film di Sergio Pablos aveva tutte le carte in regola per portarsi a casa la statuetta. Realizzato da un team di artisti di chiara formazione disneyana, gente brava davvero, capace di costruire una narrazione solida, divertente, elegante e contenutistica, Klaus costituiva un rilancio per la cara vecchia animazione tradizionale. Personaggi espressivi, ambienti stilizzati, il tutto condito da una colorazione e un rendering in grado di dare ai disegni un feeling tridimensionale. Una via intelligente e assolutamente percorribile, e che è stata percorsa grazie a Netflix, un colosso interessato a finanziare il progetto. E così, dopo anni e anni di attesa ecco che il sogno di un ex animatore Disney arriva finalmente a concretizzarsi, diventa qualcosa di vero, senza troppi compromessi e vorrei ma non posso. Dare la statuetta a Klaus avrebbe risolto tutto: avrebbero premiato un ottimo film, si sarebbero svincolati dal tributo alla “multinazionale malvagia” e allo stesso tempo ne avrebbero onorato il know-how, dando anche il giusto segnale nel settore e incoraggiando la messa in cantiere di progetti analoghi. Non dico che avrebbero salvato l’animazione tradizionale, ma avrebbe aiutato la causa. Ecco perché, per quel che mi riguarda, il vincitore morale di questa edizione è senza dubbio il gioiello di Sergio Pablos.