

E seppur con un notevole ritardo (ben due anni dall'effettiva uscita giapponese!) anche l'occidente potè finalmente gustarsi un film di Miyazaki. Fu con Mononoke Hime che il cinema d'animazione ghibliano cominciò ad essere conosciuto e apprezzato anche qui da noi, seppur da un bacino di utenza ancora molto elitario. Con Principessa Mononoke si ha il completo defungimento del Miyazaki scanzonato di Kiki e Totoro a favore di uno stile assai più cupo e inquietante, che avrebbe caratterizzato tutti i suoi lavori più recenti. Mononoke è un film adulto, pesante con un tocco dark e un certo compiacimento per il grottesco. Enormi animali decrepiti, biturzoluti, coperti di vermi, maledizioni che consumano il corpo e lo spirito, figure misteriose e inquietanti, artigiani lebbrosi e soldati menomati sono presenti per tutte le due ore e un quarto di durata del film. Ma non c'è solo questo: Mononoke Hime è infatti senza dubbio il film più naturalista di Hayao, con le sue lussureggianti foreste e i meravigliosi paesaggi di un Giappone medioevale. La regia è calma, calmissima, come a voler far godere lo spettatore di ogni filo d'erba e di ogni goccia d'acqua. E' la storia di Ashitaka, giovane principe Emishi in cerca di una cura per la maledizione che lo affligge, e del suo viaggio per le campagne giapponesi, che lo porterà nel bel mezzo della guerra tra uomo e Natura. Ed è infatti la Natura, la vera protagonista di un film che, a dispetto degli elementi tipici del Miyazaki "senile", altro non è che un remake concettuale della sua principale opera di gioventù: Nausicaa della Valle del Vento. La natura "offesa" dall'uomo, e trasformatasi così in letale Giungla Tossica è presente anche qui, solo che a trasformarsi in qualcosa di letale non è lei, ma i suoi protettori, i Mononoke, spiriti tipici della religione Shinto. Solo che a differenza dei buffi esseri visti in Totoro e prossimi ad apparire in Sen To Chihiro, qui i Mononoke sono giganteschi animali sacri, capaci di trasformarsi in disgustosi demoni verminosi dopo esser stati "infettati" dalla presenza dell'uomo. E come al solito nell'opera Miyazakiana non si può parlare di un'autentica linea di demarcazione tra buoni o cattivi: sia gli uomini che gli animali hanno personalità sfaccettate, ricche di luci e di ombre che rendono difficoltoso classificarli in un'ottica manichea. Sebbene il regista mostri di star dalla parte della natura, intitolando il film a San, la ragazza guerriera, cresciuta tra i Mononoke, di cui Ashitaka si innamora, e facendo finire la guerra con la vittoria (provvisoria) della Natura, non si può dire che sia molto lusinghiero con gli stessi Mononoke. Moro, la regina dei lupi (che in Italiano è stata dotata di una voce maschile -.-) ci appare come troppo aggressiva, mentre Okkoto, il Dio cinghiale, mostra di ragionare da cinghiale, e cioè in maniera assai ottusa. E pure nelle file degli umani c'è parecchia ambiguità: Eboshi, la signora della Città del Ferro, pur svolgendo il ruolo dell'antagonista anti-natura per eccellenza, si dimostra una persona ragionevole, all'occorrenza saggia e amata dal suo popolo. Lo stesso popolo, ricco di donne emancipate (che dovrebbero fornire l'elemento comico per sdrammatizzare le tensioni del film), sarà più volte amico e sostenitore di Ashitaka. Il personaggio forse più ambiguo però è Jiko, anziano cacciatore al soldo dell'imperatore, che stipula un patto con la Città del Ferro per la cattura della testa del Dio Cervo. Jiko, che all'inizio sarà amico di Ashitaka, ne diverrà pur bonariamente avversario nel finale. Infine troviamo un gruppo di samurai sfruttatori, che in più di un'occasione assedieranno la Città del Ferro, risultando tutto sommato superflui per l'economia del racconto. Hayao aveva da poco portato a termine la versione a fumetti di Nausicaa, conducendo le avventure della sua eroina a un'esito assai più pessimistico del lieto fine visto nel film d'animazione. In Mononoke il tema del contrasto tra uomo e natura verrà finalmente esaurito portandolo ad una conclusione ben diversa da entrambe quelle di Nausicaa: con la distruzione della foresta e del villaggio, e la fine della guerra tra i Mononoke e la Città del Ferro a concludersi sarà solo una battaglia, ma non certo l'ultima del lungo (e oserei dire benefico) ciclo di morte e resurrezione che caratterizza ogni cosa nel mondo.
Assieme a Porco Rosso e Chihiro, Mononoke possiede uno dei finali meno bruschi dell'opera Miyazakiana, in cui a vedersi come ultima cosa è una delle più felici intuizioni di Hayao, un Kodama, spiritello degli alberi, antenato dei Korogu che sei anni dopo avrebbero fatto capolino in The Legend of Zelda: The Wind Waker. Non è l'unico particolare citazionistico che lega le opere di Miyazaki e Miyamoto, come dimostra la vestaglia di una donna della Città del Ferro, tempestata di simboli della Triforza, o la migrazione mentale nel corpo del gabbiano in The Wind Waker, reminescenza dei poteri di Lana in Conan.
Graficamente parlando Principessa Mononoke non si discosta troppo dal consueto stile Ghibli. Ad un'impostazione dei volti molto sobria (Ashitaka, Sen) si contrappongono però alcuni personaggi alquanto grotteschi, come se ne vedranno sempre più spesso nei film successivi. Per l'animazione si può fare lo stesso discorso fatto in tutti gli altri Ghibli: rigida nei movimenti lenti - e ce ne sono, basti pensare a tutti i momenti "contemplativi" - e assai fluida in quelli veloci - e anche qui ce ne sono, come dimostra l'ottima scena in cui Sen corre tra i tetti della Città del Ferro, o le numerosissime scene "verminose".
E poi ovviamente c'è la musica di Joe Hisaishi. che si prende una pausa dai recenti stili europei per offrire magnifici pezzi strumentali di sapore assolutamente orientale come la trasognata ed epica La Leggenda di Ashitaka. E poi ci sono un paio di canzoni, quella delle lavoranti alla città del ferro, ascoltabile per pochi secondi e la compiuta Mononoke Hime ascoltabile nei credits, che questa volta sono completamente neri e non portano avanti la storia come di consueto.
Un opera complessa Mononoke e non di facile fruizione, tantevvero che i veri riconoscimenti (e che riconoscimenti!) sarebbero giunti solo col successivo La Città Incantata, almeno in apparenza assai più accattivante della storia della ragazza che si credeva uno spirito.