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Disney+

Inviato: martedì 31 marzo 2020, 15:42
da Valerio
Premetto: io sono un dinosauro, colleziono animazione Disney su supporto sin dai tempi delle videocassette, ho fatto il salto al dvd e poi al blu-ray e non rinuncerei mai e poi mai al formato fisico. La roba la voglio possedere, non mi fido di noleggiarla su licenza e mi piace esporla sullo scaffale. Eppure Disney+ lo attendevo comunque, e non mi è mai sfuggito il suo enorme potenziale: una maggior penetrazione culturale del materiale disneyano, un’interessante occasione per vedere che storytelling aziendale adotterà d’ora in avanti la Company per presentarsi al grande pubblico ma soprattutto… l’occasione di accedere a contenuti che trovare in formato fisico era decisamente scomodo, se non impossibile. Ho quindi abbracciato il cambiamento, senza rinnegare le mie convinzioni, e a un mese dal lancio mi ero già abbonato al servizio.

La notte dello sbarco della piattaforma in Italia ero attaccato al computer, in attesa di vedere l’effetto che la cosa avrebbe avuto e soprattutto quali feeling Disney+ potesse dare a una persona come me. Ecco, parliamo un attimo di me. Io ho creato il Disney Compendium, un progetto online votato al riordino e alla classificazione di questo materiale tanto amato, quindi per forza di cose il mio punto di vista non poteva prescinderne. E infatti al momento provai emozioni contrastanti: graficamente la piattaforma presentava delle similitudini con il Compendium, fatto di pinacoteche visive, quadratini messi in fila e via dicendo. A conti fatti però… era la fiera della confusione. Errori su errori, scivoloni in ogni campo, titoli sbagliati, mancanze, film messi nelle sezioni sbagliate, un minestrone caotico e schizofrenico. La mattina dopo qualche correzione era stata fatta, ma soprattutto erano apparsi in home dei pulsanti che rimandavano alle diverse aree produttive disneyane (Marvel, Pixar, Star Wars), per cui tirai un sospiro di sollievo. Ora, a una settimana di distanza c’è ancora molto lavoro da fare, mancano titoli, certi criteri di inclusione non hanno molto senso ma qua e là si inizia a scorgere qualche spiraglio di luce. Il problema grosso rimane la sezione Disney. Ovvero quella in cui hanno fatto rifluire qualsiasi contenuto prodotto da reparti interni e non successivamente acquisiti. Film animati, live action per famiglie, sitcom per teenager, serie prescolari si mescolano insieme senza un criterio preciso. Mi rendo perfettamente conto che la piattaforma non sia pensata per un pubblico di nicchia ma per la massa, tuttavia mi lascia perplesso che la Disney voglia “raccontare” sé stessa in questo modo.

La cosa peggiore è ovviamente la mancanza di una distinzione effettiva per le opere dei Walt Disney Animation Studios, ovvero il loro studio di animazione principale, il nucleo dell’impero. I WDAS hanno impiegato molti anni per cercare di far percepire la propria identità artistica in una giungla produttiva eterogenea, e ultimamente ce l’hanno fatta tornando ad essere la “punta” della multinazionale. Riuscire a comunicare questa “differenza” dal resto dei reparti è sempre stato un po’ lo scopo del mio operato online. Trovo quindi profondamente ingiusto che mentre Pixar o Marvel possano godere di una loro sezione apposita, i WDAS vedano il loro materiale mescolato insieme ai sequel televisivi, al materiale di seconda fascia o – peggio ancora – nel menu animazione vengano accostati ai film Blue Sky o di Don Bluth. Ci abbiamo messo decenni a estirpare dalla mente delle persone l’idea che Anastasia non fosse Disney, a spiegare come mai i seguiti da cassetta fossero di bassa qualità o a determinare la cosiddetta “lista dei classici”. Ora in un colpo solo abbiamo fatto un balzo indietro di quindici anni. Non è un problema solo di rivendicazione artistica da parte del reparto di un’azienda, ma anche di quello che il pubblico stesso sul lungo termine può percepire. Se tu, Disney, vendi allo stesso modo il Gobbo e il Gobbo 2, che messaggio arriva all’utente inesperto? Queste sono questioni che si pensavano affrontate e risolte molti anni fa, per cui fa strano ripiombare nel medioevo.

Questo non vuol dire che io abbia un’opinione negativa del prodotto. Sebbene ritenga questa questione molto grave su una prospettiva ampia, mi rendo conto che i benefici superano le pecche. E anche questa grossa, grossissima, imperdonabile pecca, la risolvi con niente. Basta creare un menu in più, un nuovo criterio d’inclusione, qualsiasi cosa va bene. Niente è inciso nella pietra, molto è fluido, chi vivrà vedrà. Nel frattempo però ho avuto modo di navigare comunque e di trovare documentari, cortometraggi e serie che nell’epoca pre-piattaforma sarebbe stato scomodo e difficile rintracciare, per cui bene così. A questo proposito merita una menzione d’onore proprio il progetto Shortcircuit dei Walt Disney Animation Studios, che la piattaforma propone come se fosse una sorta di programma unico, suddiviso in quattordici brevissimi cortometraggi. Non è fra le prime cose che si trovano in home, bisogna scavare un po’, ma è una cosa che consiglio caldamente. Queste quattordici meraviglie fanno quello per cui lo studio da sempre è famoso: sperimentano. Con la musica, con le immagini, con le emozioni. Non si tratta di vignette a basso budget, ma di vere e proprie ipotesi evolutive dell’arte dell’animazione. Alcuni raccontano storie buffe, altri sono bizzarri, altri ancora decisamente coraggiosi e riservano addirittura un retrogusto macabro. Alcuni sono più belli, altri meno, ma tutti quanti portano avanti quello che è davvero il punto focale della politica WDAS: il continuo ragionamento su quale direzione far prendere al proprio comparto visivo. L’obiettivo è sempre il solito, ovvero trasporre in una nuova forma i principi estetici della tradizione Disney. Ecco quindi animazioni ibride, chiazze di colore, rendering pittorici in un continuo rimbalzo tra due e tre dimensioni. L’effetto? Come se ci avessero regalato una specie di mini-Fantasia di frontiera, spedendocelo dritto dritto a casa nostra. Il mio consiglio è ovviamente di recuperarvelo quanto prima, dandogli precedenza su tutto. Perché è qui dentro che troviamo la radice, il significato più profondo e la vera ragion d’essere di quel marchio che dà il nome a questa nuova piattaforma. Alla base di Disney c’è l’animazione Disney, e alla base dell’animazione Disney c’è la sperimentazione visiva. Gli Shortcircuit sono il nocciolo dell’intera baracca, tutto il resto è accessorio.

Re: Disney+

Inviato: martedì 28 aprile 2020, 14:20
da Valerio
Disney+ un mese dopo. Gli errorini ci sono ancora e non sono pochi, e così anche il disordine, le mancanze, le illogicità, eppure tutto questo svanisce innanzi alla portata dell’esperienza. E’ stato un mese bello intenso, infatti, probabilmente per via della quarantena. Ma ancor più probabilmente a causa di quello che è davvero il valore aggiunto di questa piattaforma e che la distingue dall’agguerrita concorrenza: l’impollinazione. Qui nessuna fruizione è mai davvero fine a sé stessa, ma appartiene sempre ad una tradizione ben precisa, che ne incrocia altre, spingendo l’utente ad avventurarsi lungo percorsi, esplorando i vari filoni produttivi e facendosi continuamente tentare da un numero crescente di film. E’ una sorta di marketing corale: un’opera ne sostiene un’altra, che ne sorregge un’altra ancora, creando nell’utente una percezione di solidità e prestigio.
La Disney questo l’aveva capito prima di chiunque altro. Aprire una piattaforma “aziendale” con dentro prodotti appartenenti a una medesima etichetta potrà sembrare limitante se si ragiona in ottica televisiva. Se la mettiamo così è chiaro che non ci sarà mai abbastanza roba, e ci si perderà per strada svariate fette di pubblico. Ma se si amplia la prospettiva, si capisce come la multinazionale attraverso Disney+ abbia in realtà investito nella propria immagine. Disney+ crea la stessa fascinazione di Disneyland: il visitatore passeggia e ovunque si giri trova qualcosa di bello, sentendosi stimolato a provare tutto. E magari si tratta di cose che prese singolarmente non sarebbero nemmeno state notate.

Io ad esempio non mi ritenevo troppo in target per la piattaforma. Sono un incallito sostenitore del formato fisico (e non mollo), e ciò che di Disney ho scelto di seguire ce l’ho già in videoteca. O almeno così credevo. In realtà mi sto facendo una cultura extra sul live action anni 50, sulle True Life Adventures e… su quel gioiellino che è la serie tv di Rapunzel. Sempre odiate le serie tv tratte dai classici e in genere non ho mai amato le produzioni Disney Television. Ma questa serie ha un’eleganza rara. Trame lievi, lievissime, ma una direzione artistica notevole: è come se avessero preso dei quadretti di Mary Blair e li avessero animati. E il fatto che abbiano chiamato Menken e Slater per comporre nuove canzoni la dice lunga sui valori produttivi. Felicissimo di aver avuto finalmente l’occasione di recuperarla e spero che andando avanti la qualità rimanga questa.

Per quanto riguarda le altre produzioni degne di nota non posso fare a meno di citare il famigerato Mandaloriano ma soprattutto l’ottava stagione di The Clone Wars. Composta da dodici episodi, i primi otto sono buoni ma nulla più, tuttavia costituiscono un antipasto a ciò che viene dopo, ovvero la quadrilogia finale dell’assedio di Mandalore. Questa “coda” rappresenta qualcosa con ben pochi precedenti nell’universo di Star Wars e sembrerebbe esser stata concepita come un vero e proprio lungometraggio animato. Il respiro, il registro, l’azione, le trovate registiche, i fondamentali elementi di continuity e una certa gravitas narrativa danno proprio l’idea di un grosso, grossissimo salto. Se si è appassionati di Star Wars l’invito è di recuperare questo arco narrativo. Senza se e senza ma, anche senza aver visto il resto. Che tanto si fa sempre a tempo a recuperarlo.

Meno bene per la Pixar e i suoi corti, invece. La miniserie di Forky è un’occasione sprecata. Il personaggio è bello, il doppiaggio di Laurenti è una bomba e l’idea alla base ha del potenziale. Forky è come un bambino affetto da DSA e le sue domande esistenziali dovrebbero dare luogo a divertenti siparietti. Tuttavia questi teatrini risultano sempre moscetti, i personaggi di supporto sembrano ombre sbiadite di ciò che furono e in generale si sente che qualcosa non va. Molto meglio gli Sparkshorts, trame toccanti e raccontate con un certo trasporto dalla nuova generazione di animatori Pixar. Il basso budget però si sente e il design dei personaggi sembra essere rimasto fermo alla CGI di un decennio fa. Il che non è solo un problema di soldi, ma tradisce un’incertezza stilistica che ha radici molto più profonde.

Infine il gioiello della corona: The Imagineering Story. Insieme ai Cortocircuito WDAS è il contenuto originale che mi sento di consigliare maggiormente. Si tratta di una serie in sei episodi che racconta la storia dei parchi Disney. La firma Leslie Iwerks, la nipote del grande Ub, che già in passato ha dimostrato di essere in grado di ridefinire il concetto di documentario. I precedenti The Ub Iwerks Story e The Pixar Story erano a loro volta dei capolavori, e questo non fa eccezione. La grande bravura della Iwerks sta tutta nel riuscire a trovare il perfetto punto d’equilibrio tra intrattenimento e informazione. I suoi documentari sono precisi, esaurienti, assolutamente impeccabili dal punto di vista didattico, eppure riescono a creare nello spettatore una vertiginosa progressione emotiva, trovano la giusta chiave per drammatizzare la realtà senza romanzarla, riescono a raccontare verità che non hanno niente da invidiare alla fiction. In questo caso una bella mano la dà la realtà stessa: gli imagineers rappresentano una delle poche branche della Company che lavorano davvero seguendo gli ideali del fondatore. E quello che sono riusciti a fare in questi decenni è qualcosa che va oltre al concetto di intrattenimento. Sono persone in grado di riprogettare concretamente la realtà in cui viviamo, e questo mette i brividi. Recuperatela assolutamente: vi emozionerete e ne uscirete con una prospettiva tutta diversa dell’enorme rivoluzione portata da Walt Disney nel nostro panorama culturale.