66. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia
Inviato: sabato 19 settembre 2009, 12:46
Anche se con un ritardo improponibile (purtroppo è un periodo un po’ così), tento di iniziare a riassumere alla meno peggio le mie peripezie alla 66. Mostra del cinema di Venezia.
Sono arrivato al Lido, devo dire, con aspettative infime. Avevo ancora ben presente il ricordo dell’enorme delusione di Venezia 2008 (in cui solo Ponyo aveva risollevato un poco il morale, e poi niente più), e scorrendo il programma mi veniva spontaneo alzare un sospettoso sopracciglio. Fuori e dentro il concorso pullulava di star (forse mai tante come quest’anno, da George Clooney a Michael Moore, da Richard Gere a Charlize Theron, da Viggo Mortensen a Matt Damon, da Eva Mendes a Diane Kruger…), ma i film? Toh, mi dicevo, c’è Werner Herzog in concorso. Ma che cos…? Mi fa il remake di un film già perfetto così com’era, Il cattivo tenente di Abel Ferrara. E qui, o viene una genialata, o una schifezza. Poi vabbé, Moore, può essere interessante. Quattro italiani in concorso, e poi una serie interminabile di horror, con Romero, Balaguerò e esordienti vari: menù decisamente indigesto, per i miei gusti. Tuttavia, per fortuna, alla fine la Mostra è stata meno orrenda del previsto.
Parlando di orrore, proprio da un horror inizio la mia odissea veneziana, ancor prima che il festival apra i battenti: il 1° settembre riesco ad imbucarmi nella sala riservata ai quotidianisti, dove proiettano REC 2, di Balaguerò e Plaza, fuori concorso. Avevo trovato il primo REC, del 2007, un discreto prodotto d’intrattenimento; questo secondo capitolo, invece, mi è parso una buffonata. La logica registica è sempre quella dell’orrore “in presa diretta” (alla Cloverfield, per intenderci): stavolta, però, la macchina da presa la tengono in mano dei militari armati fino ai denti, che ci mostrano la caccia agli zombie con lo stile di un videogioco sparatutto in terza persona. In più, stavolta spunta pure un esorcista che neanche Dan Brown. Di sbudellamento in sbudellamento si giunge alla fine, dove attende il “boss” e il cliffhanger che prelude a REC 3. Whew.
Il giorno dopo, si comincia sul serio: la mattina s’inaugura con l’attesissimo Baarìa. Ma, che delusione! È un filmone patinato scritto con un’enfasi soffocante, e per giunta appesantito da un commento sonoro letteralmente assordante (dopo un’ora di proiezione, mi è stato detto, a molti fischiavano le orecchie), in cui i rumori travolgono la musica di Morricone e viceversa, senza interruzione. Ogni tanto, Tornatore si concede aperture a momenti fantastici che sanno di realismo magico, ma inseriti in maniera assai debole nella trama. Le “fantasticherie” tuttavia si accumulano, e si fanno ridondanti nel finale, che vorrebbe meravigliare e commuovere, ma che invece lascia solo un deposito di melassa.
(Ugh, come sono cattivo… Mi devo sfogare, ogni tanto )
Decido di rifarmi la bocca con un film della retrospettiva, Cenerentola e il Signor Bonaventura. Proprio quel Signor Bonaventura: il regista della pellicola, infatti, è Sergio Tofano. Il film è delizioso, pieno di un umorismo raffinato e di un delicato fascino d’altri tempi. Finalmente si comincia a ragionare. Il resto della giornata trascorre tra incombenze varie e arrivi scaglionati dei miei colleghi, che iniziano ad occupare l’appartamento che condivideremo per dieci giorni.
Arriva dunque il 3 settembre, ed inizia la routine: la “casa” degli accreditati stampa con il “pass” blu è la Sala Darsena, già Palalido, già Palagalileo, famosa per le file di sedie poste reciprocamente a distanza ammazzaginocchia e, da quest’anno, per due imponenti ed inquietanti tralicci che, allo spegnersi delle luci, si accendono di un bagliore rosso sangue. Forse in seguito al coro di «Ma cos’è questa schifezza» che si è alzato alla prima proiezione, i tralicci sono in seguito sempre rimasti discretamente al buio, salvo poi riaccendersi negli ultimi giorni.
La mattinata inizia con The Road, di John Hillcoat, con Viggo Mortensen e Charlize Theron. Mi dicono che il romanzo originale di Cormac McCarthy sia molto bello: il film, invece, è un… mattone, monotono e scontato. Le cose non si mettono bene. Decido di farmi del male e vado a vedermi un film francese de “Le Giornate degli Autori”, Je suis hereux que ma mère soit vivante, di Claude & Nathan Miller. Storia: un bambino adottato, giunto all’adolescenza, decide di conoscere la sua vera madre. La trova, si fa prendere da pulsioni edipiche che cerca di reprimere, dopodiché l’accoltella perché in fondo lo aveva abbandonato. Lei non muore, e in tribunale si pente pubblicamente di aver trascurato suo figlio. Il quale, dal banco degli imputati, dà titolo e conclusione al film dicendo di essere contento che sua madre sia ancora viva. Io sono contento che il film sia finito, e mi rimetto in coda per il film inaugurale della “Settimana Internazionale della Critica”: Metropia. È un film d’animazione, tra l’altro, che pare promettere bene: è svedese, quindi fuori dai circuiti “canonici”, ha un soggetto un po’ alla Orwell e un po’ alla Philip Dick, realizzato in una strana ed iperrealistica CG. Il regista si chiama Tarik Saleh, che fa anche le veci di sceneggiatore: la storia riguarda una cupa e decadente Europa del 2024, dove una rete di metropolitane iperveloci collega l’intero continente e i mezzi di comunicazione intontiscono con pubblicità a ciclo continuo. Un modesto impiegato usa una nuova marca di shampoo, e da quel momento delle “voci” cominciano a popolare la sua testa… Buone premesse insomma ma, ahimé, pessimo svolgimento. Il realismo fotografico (con deformazioni espressive) non funziona, l’animazione è sommaria, e soprattutto la sceneggiatura è pretenziosa e verbosa, e perde di vista completamente le potenzialità di certi spunti del soggetto, tra cui la questione delle metropolitane (si vedono solo un paio di volte, e non hanno alcuna incidenza narrativa).
La giornata è ancora lunga, c’è tempo per altri film: mi metto in fila per il noto Videocracy di Erik Gandini, ma il film fa il pienone e rimango fuori. Ripiego sulla retrospettiva, dove trovo un poco conosciuto film di Mario Soldati, La mano dello straniero, da un romanzo di Graham Greene (lo stesso autore della sceneggiatura de Il terzo uomo, con Orson Welles). Film un poco fiacco, ma comunque dignitoso. In serata riesco a recuperare Videocracy grazie ad una proiezione extra alle 23. Il documentario, tuttavia, non è eccezionale: i fatti che racconta sono tristemente risaputi (sembra, in effetti, un’opera creata per un pubblico non italiano), e mostrati senza particolare incisività. Ad un certo punto, inoltre, il regista si perde a raccontare delle varie aberrazioni di Lele Mora e Fabrizio Corona, perdendo di vista quello che sembrava essere il “fuoco” della sua operazione informativa, ossia i meccanismi che si celano dietro la “videocrazia” imperante in Italia. Insomma: un’utile operazione documentativa, che in più momenti stupisce e scandalizza, ma che non va in profondità nell’analisi del problema.
Il 4 settembre si riparte con una tonificante (???) sveglia alle 7 del mattino, come è normale nei giorni della Mostra, per riuscire a raggiungere le sale in tempo per la proiezione delle 8:30. Il programma prevede Life During Wartime di Todd Solondz: film provocatorio e surreale, da un regista che, dopo essere uscito dalla sala, mi riprometto di “tenere d’occhio”, andandomi magari a recuperare i suoi film precedenti. Trovo il film interessante, rispetto alla media della roba che mi è stata propinata sino a questo momento. In chiusura, verrà premiato con l’Osella per la miglior sceneggiatura. La mattinata prosegue con Herzog, finalmente: uno dei pochi titoli per i quali nutro una qualche aspettativa. Genialata o schifezza, mi ero detto: buona la seconda, come volevasi dimostrare. Nicholas Cage alterna tra due espressioni: pupazzo a molla e iena ridens. Non si capisce se Herzog ci è o ci fa, quando imbastisce certe scene risibili riguardanti le depravazioni varie a cui è soggetto l’abietto tenente. Il confronto con l’originale di Abel Ferrara è spietato. Ogni tanto Nicholas Cage in preda al delirio vede le iguane, e allora parte uno stacchetto inquietante che pare “Missione Natura” sotto LSD. Però molti, con le lacrime agli occhi, parlano di capolavoro: all’uscita della sala una ragazza fredda i miei sghignazzi con una fulminante tirata sulla trasfigurazione del rapporto uomo-natura. Al momento delle premiazioni, per fortuna, nessuno se lo fila, e recupero così un po’ di fiducia nelle mie facoltà intellettive.
Il pomeriggio s’inaugura con il discreto film russo Comegliscampi, dell’esordiente Ilja Demichev: una “tragicommedia” che disegna la parabola discendente di un burocrate rovinato dal suo altruismo. L’umore risale, ben disponendomi per la visione di quello che, infine, reputo il film migliore da me visto a Venezia quest’anno: Lourdes, di Jessica Hausner. Il film è semplice ma efficace: è la storia di una ragazza con braccia e gambe paralizzate, che prende parte ad un viaggio organizzato a Lourdes, sperando nella guarigione. Tuttavia, l’aspetto turistico e commerciale del pellegrinaggio la lascia perplessa: nonostante questo, cerca di sfruttare al meglio la sua permanenza, magari evitando le prescrizioni delle “guide” preposte alla cura degli ammalati. Proprio per questo motivo, la ragazza inizia ad essere invisa ai suoi compagni di viaggio e ai volontari, che ritengono il suo mancato rispetto dei programmi come indice di una voglia di protagonismo. Il tempo passa, i sacerdoti e i volontari spiegano ripetutamente come il viaggio a Lourdes serva sì a guarire, ma nell’anima e non necessariamente nel corpo… Ed ecco che la ragazza, un giorno, si alza e cammina. Ed è il caos: guide, malati e preti non si raccapezzano più, e comincia a serpeggiare l’invidia… Un film dai toni sommessi, che riesce a fare garbata ironia su questioni certo molto delicate, e che riesce a catturare completamente l’attenzione dello spettatore, nonostante i personaggi siano appena abbozzati e la regia non presenti chissà quali virtuosismi. Certo non è un capolavoro, ma è un film assolutamente degno di considerazione: il mio preferito di quest’anno, come dicevo. E non ha vinto nulla, a parte qualche premio collaterale.
La giornata non è finita: alle 19 si accorre tutti in Sala Darsena, per scoprire finalmente qual è il primo dei due “film sorpresa” in concorso di quest’edizione della mostra. Mi cade la mascella: un altro Herzog! E anche questo scarsotto. My son, my son, what have ye done ricostruisce le psicopatie di un giovane con la mania del teatro, che all’inizio del film, novello Oreste, infilza la madre con uno spadone. David Lynch produce, e Herzog, forse in suo onore, ci infila eccentricità varie tipo fenicotteri rosa e nani random. Solo che il tutto è di una piattezza asfissiante. Nonostante la scelta inaudita di mettere in concorso due film dello stesso regista, per fortuna questo film rimane infine appropriatamente escluso da ogni riconoscimento.
La mattina dopo, causa party così-così della sera prima, manco l’appuntamento con la sveglia alle 7. Ritorno in azione solo attorno alle 11, con Persécution di Patrice Chéreau. Un film parolaio anzichenò (francese…), con uno stile di regia che, tuttavia, non mi è dispiaciuto. Appena passabile, nel complesso. Nel pomeriggio mi infilo di nuovo nella retrospettiva, beccandomi un paio di discreti documentari antibellici (I figli delle macerie di Castellazzi e Guerra alla guerra di Marcellini/Simonelli). Dopodiché, mi aspetta un horror in concorso: Tetsuo the Bullet Man, di Shinya Tsukamoto. Non avevo mai visto niente di questo regista, ma avendo letto qualcosa in proposito ero pronto al peggio: e invece, accidenti, poi il film mi è piaciuto! A parte certe cadute nello stile da videoclip, ho trovato la regia molto interessante, e la storia degna di un film di Cronenberg. Recitazione pessima, c’è da dire, ma risultato visivo di grande impatto. Promosso (e non premiato).
In seconda serata, rimango in tema con Tetsuo andandomi a vedere un horror francese (La Horde), preceduto da un’irruzione in sala di Johnny Palomba, il quale stavolta non si produce in una “recinzione”, ma in un “trailer” del film che stiamo per vedere. Film che è una boiata colossale: in uno stabile è in atto un regolamento di conti fra due fazioni di criminali. Improvvisamente, toh, arrivano degli zombi. Non si sa da dove e perché: arrivano e basta. E i criminali si alleano per sopravvivere. Il pubblico pare divertirsi, quando saltano le teste scattano applausi a scena aperta. Vado a dormire perplesso.
E finalmente arriva il 6 settembre. Finalmente perché, come i più sanno, è il primo dei due “Pixar days” organizzati dalla Mostra del Cinema. Prima, però, faccio il mio dovere andandomi a vedere il buon Capitalism: a Love Story di Michael Moore (che, tuttavia, si lancia in giudizi ancora un poco prematuri a proposito di Obama).
(Continua…)
Sono arrivato al Lido, devo dire, con aspettative infime. Avevo ancora ben presente il ricordo dell’enorme delusione di Venezia 2008 (in cui solo Ponyo aveva risollevato un poco il morale, e poi niente più), e scorrendo il programma mi veniva spontaneo alzare un sospettoso sopracciglio. Fuori e dentro il concorso pullulava di star (forse mai tante come quest’anno, da George Clooney a Michael Moore, da Richard Gere a Charlize Theron, da Viggo Mortensen a Matt Damon, da Eva Mendes a Diane Kruger…), ma i film? Toh, mi dicevo, c’è Werner Herzog in concorso. Ma che cos…? Mi fa il remake di un film già perfetto così com’era, Il cattivo tenente di Abel Ferrara. E qui, o viene una genialata, o una schifezza. Poi vabbé, Moore, può essere interessante. Quattro italiani in concorso, e poi una serie interminabile di horror, con Romero, Balaguerò e esordienti vari: menù decisamente indigesto, per i miei gusti. Tuttavia, per fortuna, alla fine la Mostra è stata meno orrenda del previsto.
Parlando di orrore, proprio da un horror inizio la mia odissea veneziana, ancor prima che il festival apra i battenti: il 1° settembre riesco ad imbucarmi nella sala riservata ai quotidianisti, dove proiettano REC 2, di Balaguerò e Plaza, fuori concorso. Avevo trovato il primo REC, del 2007, un discreto prodotto d’intrattenimento; questo secondo capitolo, invece, mi è parso una buffonata. La logica registica è sempre quella dell’orrore “in presa diretta” (alla Cloverfield, per intenderci): stavolta, però, la macchina da presa la tengono in mano dei militari armati fino ai denti, che ci mostrano la caccia agli zombie con lo stile di un videogioco sparatutto in terza persona. In più, stavolta spunta pure un esorcista che neanche Dan Brown. Di sbudellamento in sbudellamento si giunge alla fine, dove attende il “boss” e il cliffhanger che prelude a REC 3. Whew.
Il giorno dopo, si comincia sul serio: la mattina s’inaugura con l’attesissimo Baarìa. Ma, che delusione! È un filmone patinato scritto con un’enfasi soffocante, e per giunta appesantito da un commento sonoro letteralmente assordante (dopo un’ora di proiezione, mi è stato detto, a molti fischiavano le orecchie), in cui i rumori travolgono la musica di Morricone e viceversa, senza interruzione. Ogni tanto, Tornatore si concede aperture a momenti fantastici che sanno di realismo magico, ma inseriti in maniera assai debole nella trama. Le “fantasticherie” tuttavia si accumulano, e si fanno ridondanti nel finale, che vorrebbe meravigliare e commuovere, ma che invece lascia solo un deposito di melassa.
(Ugh, come sono cattivo… Mi devo sfogare, ogni tanto )
Decido di rifarmi la bocca con un film della retrospettiva, Cenerentola e il Signor Bonaventura. Proprio quel Signor Bonaventura: il regista della pellicola, infatti, è Sergio Tofano. Il film è delizioso, pieno di un umorismo raffinato e di un delicato fascino d’altri tempi. Finalmente si comincia a ragionare. Il resto della giornata trascorre tra incombenze varie e arrivi scaglionati dei miei colleghi, che iniziano ad occupare l’appartamento che condivideremo per dieci giorni.
Arriva dunque il 3 settembre, ed inizia la routine: la “casa” degli accreditati stampa con il “pass” blu è la Sala Darsena, già Palalido, già Palagalileo, famosa per le file di sedie poste reciprocamente a distanza ammazzaginocchia e, da quest’anno, per due imponenti ed inquietanti tralicci che, allo spegnersi delle luci, si accendono di un bagliore rosso sangue. Forse in seguito al coro di «Ma cos’è questa schifezza» che si è alzato alla prima proiezione, i tralicci sono in seguito sempre rimasti discretamente al buio, salvo poi riaccendersi negli ultimi giorni.
La mattinata inizia con The Road, di John Hillcoat, con Viggo Mortensen e Charlize Theron. Mi dicono che il romanzo originale di Cormac McCarthy sia molto bello: il film, invece, è un… mattone, monotono e scontato. Le cose non si mettono bene. Decido di farmi del male e vado a vedermi un film francese de “Le Giornate degli Autori”, Je suis hereux que ma mère soit vivante, di Claude & Nathan Miller. Storia: un bambino adottato, giunto all’adolescenza, decide di conoscere la sua vera madre. La trova, si fa prendere da pulsioni edipiche che cerca di reprimere, dopodiché l’accoltella perché in fondo lo aveva abbandonato. Lei non muore, e in tribunale si pente pubblicamente di aver trascurato suo figlio. Il quale, dal banco degli imputati, dà titolo e conclusione al film dicendo di essere contento che sua madre sia ancora viva. Io sono contento che il film sia finito, e mi rimetto in coda per il film inaugurale della “Settimana Internazionale della Critica”: Metropia. È un film d’animazione, tra l’altro, che pare promettere bene: è svedese, quindi fuori dai circuiti “canonici”, ha un soggetto un po’ alla Orwell e un po’ alla Philip Dick, realizzato in una strana ed iperrealistica CG. Il regista si chiama Tarik Saleh, che fa anche le veci di sceneggiatore: la storia riguarda una cupa e decadente Europa del 2024, dove una rete di metropolitane iperveloci collega l’intero continente e i mezzi di comunicazione intontiscono con pubblicità a ciclo continuo. Un modesto impiegato usa una nuova marca di shampoo, e da quel momento delle “voci” cominciano a popolare la sua testa… Buone premesse insomma ma, ahimé, pessimo svolgimento. Il realismo fotografico (con deformazioni espressive) non funziona, l’animazione è sommaria, e soprattutto la sceneggiatura è pretenziosa e verbosa, e perde di vista completamente le potenzialità di certi spunti del soggetto, tra cui la questione delle metropolitane (si vedono solo un paio di volte, e non hanno alcuna incidenza narrativa).
La giornata è ancora lunga, c’è tempo per altri film: mi metto in fila per il noto Videocracy di Erik Gandini, ma il film fa il pienone e rimango fuori. Ripiego sulla retrospettiva, dove trovo un poco conosciuto film di Mario Soldati, La mano dello straniero, da un romanzo di Graham Greene (lo stesso autore della sceneggiatura de Il terzo uomo, con Orson Welles). Film un poco fiacco, ma comunque dignitoso. In serata riesco a recuperare Videocracy grazie ad una proiezione extra alle 23. Il documentario, tuttavia, non è eccezionale: i fatti che racconta sono tristemente risaputi (sembra, in effetti, un’opera creata per un pubblico non italiano), e mostrati senza particolare incisività. Ad un certo punto, inoltre, il regista si perde a raccontare delle varie aberrazioni di Lele Mora e Fabrizio Corona, perdendo di vista quello che sembrava essere il “fuoco” della sua operazione informativa, ossia i meccanismi che si celano dietro la “videocrazia” imperante in Italia. Insomma: un’utile operazione documentativa, che in più momenti stupisce e scandalizza, ma che non va in profondità nell’analisi del problema.
Il 4 settembre si riparte con una tonificante (???) sveglia alle 7 del mattino, come è normale nei giorni della Mostra, per riuscire a raggiungere le sale in tempo per la proiezione delle 8:30. Il programma prevede Life During Wartime di Todd Solondz: film provocatorio e surreale, da un regista che, dopo essere uscito dalla sala, mi riprometto di “tenere d’occhio”, andandomi magari a recuperare i suoi film precedenti. Trovo il film interessante, rispetto alla media della roba che mi è stata propinata sino a questo momento. In chiusura, verrà premiato con l’Osella per la miglior sceneggiatura. La mattinata prosegue con Herzog, finalmente: uno dei pochi titoli per i quali nutro una qualche aspettativa. Genialata o schifezza, mi ero detto: buona la seconda, come volevasi dimostrare. Nicholas Cage alterna tra due espressioni: pupazzo a molla e iena ridens. Non si capisce se Herzog ci è o ci fa, quando imbastisce certe scene risibili riguardanti le depravazioni varie a cui è soggetto l’abietto tenente. Il confronto con l’originale di Abel Ferrara è spietato. Ogni tanto Nicholas Cage in preda al delirio vede le iguane, e allora parte uno stacchetto inquietante che pare “Missione Natura” sotto LSD. Però molti, con le lacrime agli occhi, parlano di capolavoro: all’uscita della sala una ragazza fredda i miei sghignazzi con una fulminante tirata sulla trasfigurazione del rapporto uomo-natura. Al momento delle premiazioni, per fortuna, nessuno se lo fila, e recupero così un po’ di fiducia nelle mie facoltà intellettive.
Il pomeriggio s’inaugura con il discreto film russo Comegliscampi, dell’esordiente Ilja Demichev: una “tragicommedia” che disegna la parabola discendente di un burocrate rovinato dal suo altruismo. L’umore risale, ben disponendomi per la visione di quello che, infine, reputo il film migliore da me visto a Venezia quest’anno: Lourdes, di Jessica Hausner. Il film è semplice ma efficace: è la storia di una ragazza con braccia e gambe paralizzate, che prende parte ad un viaggio organizzato a Lourdes, sperando nella guarigione. Tuttavia, l’aspetto turistico e commerciale del pellegrinaggio la lascia perplessa: nonostante questo, cerca di sfruttare al meglio la sua permanenza, magari evitando le prescrizioni delle “guide” preposte alla cura degli ammalati. Proprio per questo motivo, la ragazza inizia ad essere invisa ai suoi compagni di viaggio e ai volontari, che ritengono il suo mancato rispetto dei programmi come indice di una voglia di protagonismo. Il tempo passa, i sacerdoti e i volontari spiegano ripetutamente come il viaggio a Lourdes serva sì a guarire, ma nell’anima e non necessariamente nel corpo… Ed ecco che la ragazza, un giorno, si alza e cammina. Ed è il caos: guide, malati e preti non si raccapezzano più, e comincia a serpeggiare l’invidia… Un film dai toni sommessi, che riesce a fare garbata ironia su questioni certo molto delicate, e che riesce a catturare completamente l’attenzione dello spettatore, nonostante i personaggi siano appena abbozzati e la regia non presenti chissà quali virtuosismi. Certo non è un capolavoro, ma è un film assolutamente degno di considerazione: il mio preferito di quest’anno, come dicevo. E non ha vinto nulla, a parte qualche premio collaterale.
La giornata non è finita: alle 19 si accorre tutti in Sala Darsena, per scoprire finalmente qual è il primo dei due “film sorpresa” in concorso di quest’edizione della mostra. Mi cade la mascella: un altro Herzog! E anche questo scarsotto. My son, my son, what have ye done ricostruisce le psicopatie di un giovane con la mania del teatro, che all’inizio del film, novello Oreste, infilza la madre con uno spadone. David Lynch produce, e Herzog, forse in suo onore, ci infila eccentricità varie tipo fenicotteri rosa e nani random. Solo che il tutto è di una piattezza asfissiante. Nonostante la scelta inaudita di mettere in concorso due film dello stesso regista, per fortuna questo film rimane infine appropriatamente escluso da ogni riconoscimento.
La mattina dopo, causa party così-così della sera prima, manco l’appuntamento con la sveglia alle 7. Ritorno in azione solo attorno alle 11, con Persécution di Patrice Chéreau. Un film parolaio anzichenò (francese…), con uno stile di regia che, tuttavia, non mi è dispiaciuto. Appena passabile, nel complesso. Nel pomeriggio mi infilo di nuovo nella retrospettiva, beccandomi un paio di discreti documentari antibellici (I figli delle macerie di Castellazzi e Guerra alla guerra di Marcellini/Simonelli). Dopodiché, mi aspetta un horror in concorso: Tetsuo the Bullet Man, di Shinya Tsukamoto. Non avevo mai visto niente di questo regista, ma avendo letto qualcosa in proposito ero pronto al peggio: e invece, accidenti, poi il film mi è piaciuto! A parte certe cadute nello stile da videoclip, ho trovato la regia molto interessante, e la storia degna di un film di Cronenberg. Recitazione pessima, c’è da dire, ma risultato visivo di grande impatto. Promosso (e non premiato).
In seconda serata, rimango in tema con Tetsuo andandomi a vedere un horror francese (La Horde), preceduto da un’irruzione in sala di Johnny Palomba, il quale stavolta non si produce in una “recinzione”, ma in un “trailer” del film che stiamo per vedere. Film che è una boiata colossale: in uno stabile è in atto un regolamento di conti fra due fazioni di criminali. Improvvisamente, toh, arrivano degli zombi. Non si sa da dove e perché: arrivano e basta. E i criminali si alleano per sopravvivere. Il pubblico pare divertirsi, quando saltano le teste scattano applausi a scena aperta. Vado a dormire perplesso.
E finalmente arriva il 6 settembre. Finalmente perché, come i più sanno, è il primo dei due “Pixar days” organizzati dalla Mostra del Cinema. Prima, però, faccio il mio dovere andandomi a vedere il buon Capitalism: a Love Story di Michael Moore (che, tuttavia, si lancia in giudizi ancora un poco prematuri a proposito di Obama).
(Continua…)