Disclaimer: rece SPOILERISSIMA
Dylan Dog #325: Una nuova vita (Ambrosini)
La Fase Uno è veramente iniziata. Sì, con lo Special qui sopra. Il #325 non è altro che la riproposizione e la conferma di uno schema che ci accompagnerà presumibilmente per il prossimo anno (sicuramente per il resto del 2013, stando alle previews), schema fatto più di trollaggine che di restart vero. A parte il "lei" in vece del "voi", confermato in questa prima uscita del mensile a firma Recchioni-Busatta dopo l'esordio nel suddetto Special, e comunque strano messo in bocca alla Trelkovski, la revoluciòn riguarda soltanto il paratesto, ovvero il modo in cui la storia di turno è confezionata e venduta. Come
La bomba!, anche
Una nuova vita è un titolo troll, un bluff metanarrativo che funziona per la storia e per quello che l'albo metanarrativamente rappresenta, ma non per le due cose insieme, che anzi rimangono parallele. Perché tolti titolo, copertina e prefazione,
La bomba! era la solita gualdonata, forse sforbiciata di qualche baloon qua e là, e
Una nuova vita è la solita ambrosinata, forse - ma non è detto - remixata qua e là, almeno stando ai ridondanti capitoletti interni inseriti senza badare alla composizione delle tavole e, soprattutto, allo svolgimento inutilmente intricato. Perché Ambrosini non bisogna per forza elogiarlo o disprezzarlo, che sappia creare atmosfera è indubbio, merito pure del suo stile grafico grottesco e particolarissimo, che non punta a visualizzare il bello bensì l'utile. No, con Ambrosini bisogna badare al sodo e giudicare quel che dice. E se nelle sue precedenti storie dylaniate diceva delle cose, questa volta cosa vuole dire non lo si capisce del tutto. Se il vecchio
Nico Macchia che usciva su Orient Express era un fumetto banalotto che non raccontava granché, il primo Ambrosini dylaniato fece scalpore proprio perché esprimeva una sua poetica, che poi era per lo più psicanalisi alla buona:
Dietro al sipario (DD #97), in fondo, era una semplice variante del tema dell'identità perduta, di Jekyll e Hyde, del bene e del male che si celano in ognuno a seconda della maschera indossata, della fratellanza come simbolo di unione e scissione.
Il guardiano della memoria (DD #108) era invece più complessa, a tratti apparentemente incapibile e facilona, ma pensandoci bene ci si accorgeva che il titolo la spiegava abbastanza.
Margherite (DD Gigante #2) ritornava invece sul tema dell'identità e della percezione che ciascuno ha di sé e degli altri. Tutte e tre le storie erano, e sono, nient'affatto capolavori o ciofeche, bensì storie che
dicono, e più che valutarle esteticamente bisognava, e bisognerebbe, discutere delle
cose che dicono. Invece su Ambrosini si è intessuto, vai a sapere quanto consapevolmente e quanto no, un madornale equivoco che ha portato lettori ed autori a considerarlo un artista di maniera, un cesellatore fatto e finito di opere d'arte da ammirare passivamente. L'equivoco è perdurato anche negli anni successivi a quelle tre storie e, anzi, quando ad Ambrosini sono state concesse le opportunità di realizzare
Napoleone e
Jan Dix, è pure accresciuto, a mio avviso anche a causa della collaborazione con il tratto effettivamente innovativo di Bacilieri (ma, Bacilieri o no, io i - non molti - Napoleoni e i Jan Dix che ho letto li ho trovati tutti intelligenti nella sostanza ma noiosissimi nella forma). Purtroppo tale equivoco pare perdurare ancora oggi, tant'è che lo stesso Recchioni ha scritto che di
Una nuova vita non ha capito niente, e
quindi gli è piaciuta molto. Che trolli? E' possibile. Tuttavia quasi tutti i commenti dei vari forum concordano nel dire che
Una nuova vita sia una storia incapibile. Ma è proprio così? No. Non è vero che in essa nulla è chiaro, anzi, è tutto piuttosto lampante. Arlequin è mitologia, è un dio/demone infernale proveniente dal medio oriente, senza essere colti basterebbe leggere Dampyr (dove è uno degli antagonisti) per saperlo. Ambrosini lo infila all'interno della cosmogonia dylaniata, nella quale i demoni sono burocrati, e lo dipinge come una sorta di malfidato consigliere in grado di aiutare lo sventurato di turno a fuggire dalla propria vita e dalla propria responsabilità. E' quello che capita a Jeffrey Walcott, che per scappare a una vita resa inutile dall'assenza della compagna fuggita e dalla presenza del fratello minore disabile e rompipalle, viene scambiato con un'altra persona. Quest'altra persona è Antoine Doinel, simbolo della belle epoque (è pure francese), del passato "che una volta si stava meglio". Che quella belle epoque si trasformi nella Prima Guerra Mondiale rende chiarissima la morale del tutto (il passato non va idealizzato, non bisogna sfuggire alla propria vita), sicché dove sta il vulnus? I guai sono almeno tre. Innanzitutto, il paradosso temporale è visualizzato male, e forse anche concepito male[1]: Walcott va nel passato dentro Doinel, però Doinel non va nel presente al posto di Walcott. Anzi, il suo corpo muore in guerra, mentre l'anima si perde e diventa un'anima vagante, ancora non trasferitasi nell'aldilà, e grazie a questa sua peculiarità fa da deus ex machina, dando un senso alla presenza del recettore Dylan (e questo è ok; pochi anni fa,
Il dogma di Paola Barbato partiva da un assunto simile). In realtà, il fantasma di Doinel afferma con convinzione di essere l'anima di Walcott: e qui c'è un errore, perché da ovunque la si guardi manca un'anima, perché se è Walcott non si sa dove sia l'anima di Doinel e se è Doinel non si sa dove sia l'anima di Walcott. Si risolve facilmente la questione presupponendo che le due anime si sovrappongano e diventino un tutt'uno, cosa che sarebbe coerente con la poetica ambrosiniana, che fa del miscuglio di personalità, come si è detto, uno dei suoi cavalli di battaglia. Quel che è comunque certo è che nel presente Walcott è Walcott. Quindi ci sono due Walcott, o, più probabilmente, due metà della sua personalità che si scindono, l'una che si realizza nel passato (ma poi fa comunque una brutta fine) e l'altra che prosegue la sua vita miserabile nel presente, talmente miserabile da arrivare a trasformarsi in omicida. A quest'ultimo punto si allaccia la seconda grana della sceneggiatura (tecnicamente ineccepibile e narrativamente confusa) dell'autore milanese, ovvero l'intervento del Diavolo, o di Arlequin come lo si voglia chiamare. Il Walcott del presente ammazza un esorcista, e secondo la Trelkovski lo fa perché quell'esorcista è visto dalle potenze infernali come "scomodo". Tale asserzione porta inevitabilmente a pensare che Walcott (quello del presente) sia "posseduto", perché è il Diavolo che vede come buon gioco l'eliminazione di un esorcista, e non Walcott, ma di questa presunta possessione l'unica traccia pare (ed è un condizionale) essere la scena che chiude il climax, nella quale Walcott viene colpito da un proiettile, dalla sua bocca pare uscire qualcosa, poi cade in acqua, vede Arlequin e muore (e contemporaneamente, quantisticamente parlando, nel 1914 muore Doinel, il ché dovrebbe stare a significare che le due metà dell'anima di Walcott si ricongiungono). Ma perché il Diavolo debba perdere tempo ad eliminare un esorcista qualunque (e non, ad esempio, Dylan Dog) non si capisce, come non si capisce perché per farlo debba rovinare Walcott e mandare a monte il patto con lui stipulato. Col senno di poi, almeno due risposte paiono ovvie: i)il Diavolo è un burlone, e d'altronde Sclavi ha dedicato diverse sue storie a definire gli inferni come fiere del nonsenso; ii)era scritto nel libro dell'universo che il paradosso temporale dovesse svolgersi in quel modo, aprendosi e chiudendosi con quelle precise modalità e tempistiche. Tuttavia, nell'albo la questione viene bellamente sorvolata. Anzi, viene ulteriormente complicata (e questo è il terzo difetto principale della storia) dal finale, in cui Myriam Enfer, la donna armena che accompagna Arlequin per tutto l'albo, e che Ambrosini dipinge come una ulteriore emanazione del Diavolo (si chiama Enfer, viene dall'area azera in cui la mitologia colloca il vero Harlequin, appare sempre identica nel passato nel presente e come spettro), viene regredita a semplice possessione. Così le ultime tre pagine dell'albo si trasformano in una inutile appendice che inguaia tutto il meccanismo della storia. L'ormai celebre foto che vede la Enfer a fianco di un bambino e di una donna, di cui nulla viene rivelato se non che probabilmente sono la figlia e il nipote, e la compresenza del costume da arlecchino abbandonato e del cadavere della sola Enfer (del bambino invece non v'è traccia), fanno perdere qualche pezzo al castello di carte. E il tratto abbozzato dell'Ambrosini disegnatore peggiora la situazione. Così ha ben donde chi afferma che la donna nella foto a fianco di Myriam e del bambino non sia Ester, la prima compagna di Walcott, perché non è che le assomigli granché. Ma ha ben donde anche chi dice che invece è proprio lei, perché un po' le assomiglia, e perché logica così porta a pensare. Come porta a pensare che la stessa Myriam sia vittima di un patto demoniaco e che magari, oltre che nel presunto 2012, si trovi "contemporaneamente" anche nel 1905 ad aiutare Doinel dopo che questi ha tentato il suicidio. Ma in questo caso chi sarebbe la sventurata del 1905 di cui Myriam ha occupato il posto? E anche se Ester fosse la figlia di Myriam quale relazione ci sarebbe fra Arlequin e il presunto figlio di Walcott? E se il bambino fosse il figlio di Walcott perché starebbe in Armenia? Insomma, una domanda dopo l'altra non la si finirebbe più. Rimane solo da chiedersi perché la precedente gestione editoriale della serie abbia accantonato questa storia, pubblicando invece una storia altrettanto circolare ed "universale" come
Effetti collaterali (la quarta storia di Ambrosini, comparsa dal nulla nel 2011), nella quale invece tutto filava ma a causa della quale Ambrosini era arrivato a battibeccare con Gualdoni al punto da lasciare DD. Insomma, alla luce dei tanti buchi di sceneggiatura, Gualdoni aveva forse tutti i torti? I fans passivi, che della storia non hanno capito nulla ma non si pongono domande, sicuramente diranno di sì. E il loop non sarà spezzato.
[1]Per inciso, pure alla revisione sfugge un "ottobre 2012", unico referente cronologico (a parte il 1914 del prologo), che si rivela essere inutile dal punto di vista narrativo e squalificato dal contesto editoriale in cui la storia si presenta in edicola (perché non 2013?).