Era il primo dopoguerra. In un villaggio di pescatori giapponesi una famiglia, accecata da fame e stenti, decise di vendere le sue due bambine: Chiyo, di 9 anni, e la sua sorella maggiore.
Portate in città, le sorelle vennero separate loro malgrado; e la più piccola, Chiyo, si ritrovò in una okiya. Una casa di educazione per geishe.
Chiyo era l'ultima arrivata, in un ambiente intessuto d'invidie e gelosie; ma la purezza del suo sguardo azzurro impressionò la Madre, la governante dell'okiya. Una velata benevolenza che non avrebbe mancato di suscitare dispetti e vessazioni, soprattutto da parte della presunta erede designata della madre: la geisha Hatsumomo.
Ma Chiyo, destinata a diventare una semplice serva dell'okiya in seguito ad un maldestro tentativo di fuga, avrebbe avuto una storia che l'avrebbe ampiamente ripagata delle sofferenze infantili. Una storia che iniziò quando un uomo gentile e senza nome la incoraggiò in un momento di sconforto...
Ok, può bastare: già ho sfiorato lo spoiler a più riprese. Ecco dunque il lungamente annunciato
Memorie di una Geisha,
kolossal tratto dal
bestseller di Arthur Golden e nato sotto l'egida di Steven Spielberg, inizialmente intenzionato a dirigere personalmente l'opera, dopo essersene prontamente accaparrato i diritti, ignorando la causa miliardaria che Mineko Iwasaki (la geisha reale dalla cui vita la storia sarebbe stata tratta) aveva intentato a Golden per le inesattezze presenti nella storia.
Inesattezze o meno, la versione cinematografica di
Memorie di una Geisha appare comunque esattamente come ce la si aspettava: un grande melò d'estetica e d'atmosfera, guidato dal plurioscarizzato (Chicago...:roll:) specialista dell'estetismo scenografico (e un po' vacuo) Rob Marshall. E dal punto di vista visivo, c'è da dire, il film fa centro: luci e scenografie contrappuntano la storia con intensità, creando atmosfere che spaziano da vaghe reminiscenze di chiaroscuri kurosawiani a scintillanti coreografie che ammiccano al
musical di Broadway.
Dal punto di vista della storia e dei contenuti la pellicola perde invece qualche colpo. Due sono i fini fondamentali della narrazione: seguire naturalmente la vicenda di Chiyo, e paralleleamente trasporre in immagini l'assunto per cui "una geisha non era né una moglie né una prostituta, ma un'artista che si guadagnava da vivere intrattenendo uomini importanti". La tesi nel film è ampiamente sostenuta dalle sequenze mostranti la difficile educazione di Chiyo, l'affinamento delle sue abilità oratorie ed artistiche, il suo sempre più sottilmente cinico potere seduttivo; situazioni e riferimenti più propriamente erotici fanno solo, giustamente, da esile cornice. Ma, appunto, si sente troppo che questo largo affresco biografico è guidato dalla dimostrazione di una tesi: una sorta di ingessatura comunicativa che sottrae calore ed autenticità alla narrazione, rendendola patinata e distaccata.
Anche la resa della società giapponese anni '30 e '40 ha un che di eccessivamente artefatto. Ci sono, è vero, segni di una ricerca culturale accurata, ad esempio nella messa in scena dei rituali, degli abiti, degli oggetti; ma questa minuziosità indulge troppo nel puro mostrare, senza che talvolta ve ne sia la reale necessità. Come a dire: questo è il vero Giappone di quell'epoca, e ora ve lo dimostriamo sciorinandovi davanti agli occhi tutto lo sciorinabile. E non solo davanti agli occhi: che bisogno c'era, ad esempio, di buttare lì ogni tanto qualche parola in giapponese, se poi queste stesse parole venivano riutilizzate tradotte? (Tipo "okasan" e poi "madre"...). Una classica ingenuità. Che ha comunque un effetto: crea un'impressione di esotismo tradizionale "alla occidentale". E il film è appunto questo, un grande
feuilleton esotico che inizia come una cupa favola (la storia della bambina, la parte migliore e più coinvolgente, a mio avviso), continua come un romanzo di formazione e finisce in bilico tra racconto di guerra e film di Frank Capra. Va peggiorando, insomma (con tutto il rispetto per Frank Capra, che ho tirato in ballo forse un poco in stile cavoli a merenda; ma con le dovute cautele il paragone ci può stare
).
Cede alle lusinghe dell'esotismo anche John Williams, che confeziona per l'occasione una colonna sonora ricca di stilemi ispirati alla musica classica giapponese. Ecco allora schierati strumenti "etnici" come shakunachi, koto ed ehru, accoppiati ad armonie non raramente a base pentatonica. In queste sezioni della partitura c'è però poca ispirazione. Va comunque notata la maestria del compositore nella gestione del "cambio" del proprio stile espressivo, qui generalmente pensoso, sobrio, vibrante e vicino a quanto udito in "Schindler's List", anche se non allo stesso livello artistico. Questa colonna sonora ha però una punta di diamante: il tema intonato dal violoncello solista di Yo-Yo Ma, che si ode ad esempio nel brano "The Chairman's Waltz". Non a tutti i costi giapponesizzante, propone una melodia dolente e inquieta, che avvolge e trascina con garbo, colorandosi d'uno splendido indugio su un salto melodico tipico del linguaggio musicale di Williams, il larghissimo intervallo di settima maggiore.
In definitiva: un sontuoso banchetto per gli occhi, che sino alla fine cerca di ingolosire anche la mente nonostante vada via via facendosi insipido e freddo.
Nota di merito comunque per le interpretazioni di Zhang Ziyi e Gong Li. E al cast in generale, sì.