L'opera seconda di
Wes Anderson è forse la mia preferita, ad un passo dal completare la mia personale "cronologica al contrario" della filmografia del regista texano.
Certamente meno ficcante del successivo
I Tanenbaum, meno fantastico delle
Avventure Acquatiche di Steve Zissou, meno profondo di
Darjeeling Limited e meno completo di
Grand Budapest Hotel,
Rushmore ha in sé la forza del minimalismo, che si avverte nella trama e nella recitazione dei tre protagonisti:
Jason Schwartzman,
Olivia Williams e
Bill Murray.
La tragicomica storia d'amore del quindicenne protagonista per un'insegnante giovane ma sempre troppo grande per lui, per quanto tema portante della pellicola, è quasi un pretesto per mettere in scena un microcosmo di adulti infantili e smarriti, incapaci di vivere in modo indipendente o lasciandosi alle spalle le cose brutte che li hanno colpiti. Il tutto attraverso le lenti di un ragazzino per certi versi troppo maturo per la sua età ma comunque vittima delle stesse confusioni e limiti che caratterizzano coloro che lo circondano.
Come la maggior parte delle opere successive di Anderson, anche qui si può rilevare l'assenza di una trama propriamente detta: tutto si muove perlopiù per episodi legati assieme dal labile filo rosso delle relazioni e delle aspirazioni del protagonista, ma non c'è un'avventura determinata, non c'è l'episodio particolare nella vita del personaggio che cambia la routine e anche il protagonista stesso: quello che forse mi piace di più del cinema di Anderson è proprio questo tentativo - a mio parere riuscito, e mai bene come in questo
Rushmore - di raccontare la quotidianità senza la forzatura di fotografare un'evoluzione che cambi le cose nella vita dei personaggi. No, questi si trovano ad essere gli stessi falliti, anche se magari con qualche esperienza sul groppone in più, che vedevamo all'inizio. Non ci sono epifanie o riscatti, e anche se prima dei titoli di coda i personaggi ottengono qualche riscatto personale (come in questo caso) tutto è giocato così ambiguamente, sul piano dei sentimenti, da non dare sollievo allo spettatore, che rimarrà con quel tono agrodolce di malinconia che c'è anche prima.
Una credibilità quasi didascalica - non è un caso l'ampio uso di scritte in sovrimpressione che compaiono qui e in altri film (altrove dividono proprio il film in capitoli) - che è paradossale da rilevare, se si pensa che l'estetica e le personalità che compaiono nell'immaginario "andersoniano" sono sempre fortemente surreali o poco plausibili nella vita vera. Una sorta di miracolo, che mi fa credere molto più alle vicende assurde di un quindicenne che vorrebbe vivere per sempre nella prestigiosa scuola che rappresenta la sua vita e che cerca di conquistare un'insegnante mandando intanto avanti le sue mille attività extra-curriculari, rispetto a quelle più impostate di altri film più noti e acclamati, anche della stessa scena indipendente.