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[Christina Rossetti] Il Mercato dei Folletti

Inviato: giovedì 06 luglio 2017, 18:58
da Pangur Ban
Christina Rossetti's Goblin Market - Visually Interpreted by Omar Rayyan

Autrice: Christina Rossetti
Illustrazioni: Omar Rayyan
Pubblicato da Donald Grant Publishing
Anno: 2017 (già disponibile)
Lingua: inglese
Specifiche: 10 x 12 pollici, cartonato, 88 pagine
Prezzo: $ 35,00
"Goblin Market" (Il Mercato dei Folletti) costituisce, assieme ad altre poesie, il primo libro pubblicato da Christina Rossetti (era il 1862, e la poetessa aveva 32 anni) e rimane la sua opera più famosa. Apparentemente rivolto a un pubblico infantile (per un certo periodo fu erroneamente considerato poesia per bambini come lo sono invece le filastrocche intitolate "Sing-Song", di cui qui presentiamo una scelta) è finito perfino, ai nostri tempi, in pasto a interpretazioni dissacratorie in chiave erotica: in realtà si tratta, com'era certamente nelle intenzioni di Christina, di un'allegoria del peccato e della redenzione. La carnalità e l'edonismo con cui Christina descrive i piaceri proibiti, anche quelli semplici di gola (l'amore per i dolci, succosi frutti mediterranei) dimostrano, oltre al notevole virtuosismo tecnico della poetessa, anche la sua fondamentale innocenza priva di moralismi. Ovviamente, l'allegoria del poemetto è aperta a molte interpretazioni: Laura e Lizzie, le due sorelline legate da indissolubile vincolo di affetto, sono Christina e Maria (la sorella fattasi suora), ma sono anche, verosimilmente, Christina e il fratello Dante Gabriele, di caratteri invece più simili ma di destini diversi. Di Dante Gabriele, il celebre pittore preraffaellita, è nota infatti l'esistenza tumultuosa, mentre la vita casta e quasi monastica di Christina fu come quella di Emily Dickinson: troppo semplice e severa per mettere in imbarazzo chicchessia.
Trovate un'ottima recensione anche qui:

https://ilcantodicalliope.wordpress.com/20...stina-rossetti/

Ecco il testo in italiano (ci ho aggiunto alcune pagine del libro dell'edizione Grant):

Il Mercato dei Folletti

Testi di Christina Rossetti
Illustrazioni di Omar Rayyan

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Mattina e sera Le fanciulle sentivano i folletti gridare:
“Vieni compra i nostri frutti dell’orto,
vieni compra, vieni compra:
cotogne e mele
arance e limoni,
ciliegie grosse e intatte,
lamponi e meloni,
pesche dalle guance floride,
gelsi dalla testa scura
mirtilli palustri nati in libertà
mele selvatiche, more di rovo,
ananas, more nere,
albicocche, fragole;-
maturate tutte insieme
in tempo d’estate,-
mattine che scorrono via,
belle serate che volano;
Venite a comprare, venite a comprare:
i nostri grappoli freschi di vite,
melagrane belle piene,
datteri e intense susine,
pere rare e prugne verdi,
prugne damaschine e mirtilli,
provate e assaggiate:
ribes e uva spina,
crespino rosso come fuoco,
fichi da riempirti la bocca,
cedri dal Sud,
dolci alla lingua e intatti all’occhio;
venite a comprare, venite a comprare.”

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Di sera in sera
Tra i giunchi lungo il ruscello,
piegava il capo per sentire,
Lizzie velava i suoi rossori:
accovacciate vicine vicine
nell’aria che si raffredda
braccia conserte e labbra all’erta,
con la punta delle dita e le guance intirizzite.
“Stammi vicina” disse Laura,
drizzando la sua testa d’oro:
“non dobbiamo guardare i folletti,
non dobbiamo comprare la loro frutta:
chissà su quale suolo hanno nutrito
le loro affamate assetate radici?”
“Venite a comprare,” chiamano i folletti
Arrancando per la valle.
“Oh” gridò Lizzie, “Laura, Laura,
non dovresti sbirciare i folletti.”
Lizzie si coprì gli occhi
Si coprì forte per paura che vedessero;
Laura sollevò la sua testa lucente,
e sussurrò come un ruscello irrequieto:
“Guarda, Lizzie, guarda, Lizzie,
giù per la valle avanzan degli omini.
Uno trascina una cesta
Uno sostiene un vassoio
Uno porta a fatica un piatto d’oro
Che pesa tanti kili.
Che bella vite dev’esser quella
Che dà quei grappoli meravigliosi;
che vento caldo deve soffiare
tra quei cespugli di frutta.”
“No,” disse Lizzie: “No, no, no:
le loro offerte non ci devono incantare,
i loro perfidi doni ci farebbero del male.”
Si cacciò un dito -----
In ciascun orecchio, chiuse gli occhi e fuggì:

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Curiosa Laura decise di continuare
A stupirsi di ognuno dei mercanti.
Uno aveva una faccia di gatto,
uno agitava nell’aria una coda,
uno camminava a passo di topo,
uno strisciava come una lumaca,
uno avanzava furtivo lento e peloso come un wombat,
uno come un ratele ruzzolava a precipizio.
Lei sentì una voce come voce di colombe
Che tubavan tutte insieme.
Sembravano gentili e piene d’amore
Nell’aria serena

Laura allungò il suo collo splendente
Come un cigno incastrato tra i giunchi,
come un giglio da un ruscello di montagna,
come un ramo di pioppo illuminato dalla luna,
come un vascello al varo
quando l’ultimo freno è tolto.

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Indietro sulla valle muschiosa
Si voltarono e si radunarono i folletti,
con il loro grido acuto ripetuto,
“venite a comprare, venite a comprare.”
Quando arrivarono dov’era Laura
Restarono ------ immobili sul muschio,
guardandosi l’un l’altro di sottecchi,
fratello con bizzarro fratello;
facendosi segni l’un l’altro,
fratello con furbo fratello.
Uno mise giù la sua cesta,
uno sollevò il suo vassoio;
uno cominciò a intrecciare una ghirlanda
di viticci, foglie e grezze noci marroni
(non ne vendono in nessuna città);
uno solleva il peso d’oro
del piatto e della frutta da offrirle:
“Venite a comprare, venite a comprare” era ancora il loro grido.
Laura fissava ma non si muoveva,
desiderava ma non aveva soldi:
il mercante che agitava la coda la invitò all’assaggio
con accenti dolci come il miele,
quello dal muso di gatto le fece le fusa,
quello dal passo di topo disse una parola
di benvenuto, e si fece sentire anche passo di lumaca;
uno dalla voce allegra di pappagallo
gridò ‘folletto bello’ come dicesse ‘Loreto bello’-
uno fischiò come un uccello.

Ma la golosa Laura disse in fretta:
“Buona gente, non ho moneta;
prendere sarebbe rubare:
non ho rame nella borsa,
non ho argento nemmeno,
e tutto il mio oro è nella ginestra
che ondeggia quando soffia il vento
sopra l’erica rugginosa.”
“Hai tanto oro sulla testa”
Risposero tutti insieme:
“Compra da noi con un ricciolo d’oro.”
Tagliò una preziosa ciocca d’oro,
lasciò cadere una lacrima più rara di una perla,
poi succhiò i loro frutti tondi belli e rossi:
più dolci del miele dalla roccia.
Più forti del vino che rallegra l’uomo,
più limpido dell’acqua scorreva quel succo;
non aveva mai provato niente del genere,
come poteva stuccare a consumarne?
Succhiò e succhiò e succhiò quanta più
frutta che quel campo sconosciuto generò;
succhiò finché ebbe le labbra indolenzite;
poi gettò via le scorze svuotate
ma ne raccolse un nocciolo,
e non sapeva se fosse notte o giorno
mentre tornava a casa sola.

Lizzie le andò incontro al cancello
Piena di saggi rimproveri:
“Cara, non dovevi fermarti così tanto,
il crepuscolo non è adatto alle ragazze;
non dovevi attardarti nella valle
nei luoghi degli uomini folletto.
Non ti ricordi di Jeanie,
che li incontrò al chiar di luna,
accettò i loro doni di prima scelta e tanti,
mangiò la frutta e si adornò di fiori
colti da pergole
dove l’estate matura a tutte l’ ore?
Ma per sempre nella luce di mezzodì
Si struggeva e languiva;
notte e giorno li cercò,
non li trovò mai più ma indeboliva e ingrigiva;
e cadde con la prima neve;
da quel giorno in poi non crescerà più l’erba
dove giace:
io lì ho piantato margherite un anno fa
che non sono mai spuntate.
Non dovevi attardarti tanto.”
“No, zitta” disse Laura:
“No, zitta, sorella mia:
ho mangiato e mangiato a sazietà,
e in bocca ho ancora l’acquolina;
domani sera ne
comprerò ancora” e la baciò:
“smettila di affliggerti;
ti porterò delle prugne domani
fresche sui ramoscelli madre,
ciliegie che val la pena mangiare;
non puoi capire che fichi
i miei denti hanno conosciuto,
quali meloni ghiacciati
accatastati su un piatto d’oro
troppo grande per me da sostenere,
che pesche dal pelo di velluto,
grappoli tralucenti senza neanche un seme:
odoroso davvero dev’essere quel prato
dove sono cresciuti, e pura l’acqua che han bevuto
con gigli sull’argine,
e dolce come zucchero la loro linfa.”

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Testa d’oro accanto a testa d’oro,
come due piccioni in un nido
che si avvolgono l’un l’altro con le ali,
giacciono nel loro letto a baldacchino:
come due fiori sullo stesso stelo,
come due fiocchi di fresca neve,
come due bastoni d’avorio
con la punta d’oro per maestosi re.
La luna e le stelle le stavano a guardare,
il vento le cantava una ninna nanna,
i goffi gufi evitavan di volare,
neanche un pipistrello svolazzava qua e là
attorno al loro riposo:
guancia a guancia e petto a petto
rinchiuse insieme in un solo nido.

Presto al mattino
Quando il primo gallo cantò il suo annuncio,
ordinate come api, così dolci e operose,
Laura si alzò con Lizzie:
presero il miele, munsero le mucche,
arieggiarono e rassettarono la casa,
impastarono focacce di farina bianchissima,
focacce per palati delicati,
poi schiumarono il burro, montarono la panna,
nutrirono il pollame, si sedettero a cucire;
parlarono come dovrebbero le ragazze modeste:
Lizzie col cuore aperto,
Laura assorta in un sogno,
una contenta, una un po’ malata;
una cinguetta per la mera gioia del giorno pieno di luce,
l’altra desidera la notte ardentemente.

Finalmente la lenta sera arrivò:
andarono con le brocche al ruscello fitto di canne;
Lizzie dallo sguardo più placido,
Laura più simile a una fiamma che saltella,
attinsero l’acqua gorgogliante dal fondo;
Lizzie colse giaggioli paonazzi e ricchi calami,
poi voltando verso casa disse: “Il tramonto arrossisce
quelle rupi più alte e più lontane;
vieni, Laura, non resta più nemmeno una ragazza,
non si agitano più gli scoiattoli caparbi,
le bestie e gli uccelli dormono già profondamente.”
Ma Laura indugiò ancora tra i giunchi
E disse che il pendio era ripido.

E disse che era ancora presto,
la rugiada non cadeva, il vento non raffreddava:
sempre ascoltando, ma non cogliendo
il solito richiamo,
“Vieni compra, vieni compra,”
Col suo iterato motivetto
Di parole dall’esca zuccherina:
per quanto guardasse
non scorgeva nemmeno un folletto
correre, sbattere, rotolarsi, arrancare;
né tantomeno le masse
che di solito attraversavano la vallata,
da soli o a gruppi,
di mercanti di vivida frutta.

Finché Lizzie implorò “Oh Laura, vieni;
Io sento il richiamo alla frutta ma non oso guardare:
non dovresti indugiare oltre a questo ruscello:
vieni con me a casa.
Spuntano le stelle, la luna incurva il suo arco,
ogni lucciola lampeggia la sua scintilla,
andiamo a casa prima che la notte diventi buia:
che le potrebbero ammassarsi
anche se questo è tempo estivo,
spegnere le luci e inzupparci tutte;
poi se ci perdessimo che faremmo?”

Laura divenne fredda come pietra
scoprendo che solo sua sorella sentiva quel richiamo,
quel richiamo dei folletti,
“vieni compra la nostra frutta, vieni compra.”
Deve non comprarla più quella frutta squisita?
Deve non trovare più pastura così succosa,
finita sorda e cieca?
L’albero della vita in lei avvizzì dalla radice:
non disse una parola nel suo male dalla ferita del cuore;
ma scrutando nella semioscurità, senza distinguere nulla,
arrancava verso casa, mentre la brocca gocciolava per tutta la strada;
e così si infilò nel letto, e giacque
in silenzio finché Lizzie dormiva;
poi si mise a sedere in un fervente struggimento
e digrignava i denti per il desiderio mancato, e pianse
che sembrava le si spezzasse il cuore.

Giorno dopo giorno, notte dopo notte,
Laura continuò a vegliare in vano
In un silenzio cupo di straordinario dolore.
Non udì mai più il richiamo dei folletti:
“Vieni compra, vieni compra;”-
Non spiò più gli uomini folletto
Cercare di vendere la loro frutta lungo la valle:
ma quando il mezzodì si fece luminoso
i suoi capelli divennero grigi e radi;
si assottigliò, come la bella luna piena volge
in rapida decadenza e consuma
il suo fuoco

un giorno ricordandosi del suo seme
lo pose accanto a un muro esposto a sud;
lo bagnò di lacrime, sperò in una radice,
si aspettava che crescesse un germoglio,
ma non ce ne fu nessuno;
non vide mai il sole,
non sentì mai scorrere la gocciolante umidità:
mentre con occhi incavati e avvizzita
sognava i meloni, come un nomade vede
false onde nella siccità del deserto
con l’ombra di alberi coronati di foglie,
e brucia di sete nella brezza sabbiosa.
Non rassettava più la casa,
non accudiva più i polli o le mucche,
non prendeva più il miele, non impastava focacce di farina,
non portava l’acqua dal ruscello:
ma sedeva svogliata al lato del camino
e non voleva mangiare.

La dolce Lizzie non poteva sopportare
di guardare sua sorella in preda al cancro dell’angoscia
che pure non condivideva.
Lei notte e giorno udiva il richiamo di folletti
“Vieni compra i nostri frutti dell’orto,
vieni compra, vieni compra;”-
vicino al torrente, lungo la vallata,
sentiva i passi degli uomini folletto,
la voce e il trambusto
che la povera Laura non riusciva a sentire;
voleva tanto comprare la frutta per confortarla,
ma temeva di pagarla troppo cara.
Pensava a Jeanie nella tomba,
che avrebbe dovuto essere sposa;
ma che per le gioie che le spose sperano di avere
si ammalò e morì
nel fiore degli anni spensierato,
all’inizio dell’inverno,
col brillare della prima brina,
con la prima nevicata di soffice inverno.


Finché Laura perdendo le forze
Sembrò bussare alla porta della morte:
a quel punto Lizzie non soppesò più
il meglio e il peggio;
ma messo un penny d’argento nel borsellino
baciò Laura, attraversò la brughiera con ciuffi di ginestra
al crepuscolo, si fermò al ruscello:
e per la prima volta in vita sua
cominciò ad ascoltare e guardare.

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Ogni folletto rise
quando la scorsero sbirciare:
le vennero incontro arrancando,
volando, correndo, saltando,
ansimando e sbuffando,
ridacchiando, applaudendo, esultando,
vezzeggiando e gloglottando,
facendo ghigni e boccacce.
Pieni di spocchia,
facendo smorfie,
espressioni affettate,
a mo’ di gatto e a mo’ di topo,
a mo’ di ratele e di vombatto,
a passo di lumaca che va di fretta,
voce di pappagallo e fischiatore,
in fretta e furia, in quattro e quattr’otto,
schiamazzando come gazze,
ondeggiando come piccioni,
scivolando come pesci,-
la abbracciarono e la baciarono,
la strinsero e l’ accarezzarono:
tirarono su i loro piatti,
panieri, e vassoi:
“guarda le nostre mele
ruggine e brune,
afferra le nostre ciliegie,
mordi le nostre pesche,
cedri e datteri,
uva su richiesta,
pere rosse per il crogiolarsi
al sole all’aperto,
prugne ancora sui rami;
coglili e succhiali
melagrani, fichi.”-

“Buona gente,”disse Lizzie,
memore di Jeanie:
“datemene molte e tante:”-
Stese il grembiule:
gettò loro il suo penny.
“No, siediti con noi,
facci l’onore di mangiare con noi,”
risposero con un ampio sorriso
“Il nostro banchetto è appena cominciato,
la notte è ancora giovane,
tiepida e imperlata di rugiada,
ben sveglia e stellata:
succhi come questi
nessuno li può trasportare;
metà della floridezza svanirebbe,
metà della rugiada seccherebbe,
metà del loro gusto se ne andrebbe.
Siediti e banchetta con noi,
sii il nostro ospite benvenuto,
rasserenati e ristorati con noi.”-
“Grazie,” disse Lizzie: “ma mi aspetta
a casa una persona da sola:
perciò senza ulteriori parlamenti,
se non volete vendermi nessuna
delle vostre frutta per quanto tante e molte,
ridatemi il mio penny d’argento
che vi ho lanciato a copenso.”-
quelli cominciarono grattarsi le zucche,
non più scodinzolando, facendo le fusa,
ma visibilmente esitando,
grugnendo e ringhiando.
Uno la chiamò arrogante,
intrattabile, incivile;
i loro toni si fecero più alti,
i loro sguardi cattivi,
sferzando le code
la calpestarono la spinsero,
la sgomitarono e la urtarono,
la graffiarono con le unghie,
abbaiando, miagolando, fischiando, deridendo,
le stracciarono la veste e le sporcarono le calze,
le strapparono i capelli dalle radici,
le pestarono i piedi delicati,
le tennero le mani e le spremettero la frutta
sulla bocca per fargliela mangiare.

Bianca e d’oro Lizzie sopportò,
come un giglio in una piena,-
come uno scoglio di pietra venata di blu
sferzato dalle maree indocilmente,-
come un faro abbandonato
in un ruggente bianco mare,
manda in aria un fuoco d’oro,-
come un arancio coronato di frutti
bianco di fiori dolci come miele
sofferente l’assedio di vespe e di api,-
come una città regale intatta
coronata di guglie e cupole dorate
cinta d’assedio da una flotta
avida di ammainare il suo stendardo.

Si può portare un cavallo all’acqua,
in venti non si riesce a farlo bere.
Per quanto i folletti la ammanettino e la afferrino,
la palpeggino e la picchino,
la tormentino e la sollecitino,
la grattino, la pizzichino nera come inchiostro,
la prendano a calci la battano,
la maltrattino e la scherniscano,
Lizzie non proferì parola;
non avrebbe aperto labbro da labbro
per paura che le forzassero un boccone:
ma in cuor suo rise nel sentire lo sgocciolare
del succo che come sciroppo le copriva la faccia,
e si depositava nelle fossette del mento,
e le rigava il collo che tremava come caglio.
Alla fine la cattiva gente
stremata dalla sua resistenza
le rigettò il penny, portarono via a calci la frutta
lungo qualsiasi strada che presero
senza lasciar radice o nocciolo o germoglio;
alcuni si contorsero nella terra,
alcuni si immersero nel ruscello
con cerchio e onde,
alcuni fuggirono nel vento senza un suono,
alcuni svanirono lontano.


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In un bruciore, dolore, formicolio,
Lizzie andò per la sua strada;
non sapeva se fosse notte o giorno;
saltò sull’argine, si graffiò con la ginestra,
infilò il sottobosco e la valletta,
e sentiva il penny tintinnare
rimbalzando nel borsellino,
quel rimbalzare era musica al suo orecchio.
Corse e corse
Come se temesse che qualche uomo folletto
La inseguisse con scherni o imprecazioni
Ma neanche un folletto la rincorreva
E lei non si sentiva in preda alla paura;
il cuore generoso la rese veloce come il vento
che la spingeva a casa del tutto senza fiato in fretta
e dentro se ridendo.

Gridò “Laura,” lungo il giardino,
“Ti sono mancata?
Vieni a baciarmi.
Non pensare ai miei lividi,
abbracciami, baciami, succhia i miei succhi
spremuti dalla frutta dei folletti per te,
polpa dei folletti e rugiada dei folletti.
Mangiami, bevimi, amami;
Laura, guardami bene:
per amor tuo ho affrontato la vallata
e ho avuto a che fare coi mercanti uomini folletto.”

Laura sobbalzò dalla sedia,
tirò su le braccia in aria,
le afferrò i capelli:
“Lizzie, Lizzie, tu hai provato
Per amor mio la frutta proibita?
La tua luce come la mia dev’essere occultata
La tua giovane vita come la mia sciupata,
disfatta nel mio disfacimento,
e rovinata nella mia rovina,
assetata, infettata, tormentata dai folletti?”-

si aggrappò tutta alla sorella
la baciò e baciò e baciò:
le lacrime ancora una volta
rinfescarono i suoi occhi rinsecchiti,
cadendo come pioggia
dopo una lunga soffocante siccità
tremando di febbrile paura, e dolore,
la baciò e baciò con un’avida bocca.

Le sue labbra cominciarono a bruciare
Quel succo era assenzio alla sua lingua,
lei aborriva il banchetto:
dimenandosi come posseduta saltava e cantava,
si strappò tutta la vestaglia, e si torceva
le mani in una furia deplorevole,
e si batteva il petto.
I suoi ricci ondeggiavano come la torcia
portata da un corridore a tutta velocità,
o come la criniera di cavalli in fuga,
o come un’aquila quando dirige lo sguardo
dritto verso il sole,
o come una creatura in gabbia liberata,
o come una bandiera sventolante quando gli eserciti corrono.

Rapido fuoco si propagò nelle sue vene, bussò al suo cuore,
si incontrò col fuoco che brucia lì
e si impose sulla sua minore fiamma;
si rimpinzò di un’amarezza senza nome:
ah! Pazza, scegliere un tale ruolo
di ansia che consuma l’anima!
Perse coscienza nella lotta mortale:
come la torre di guardia di una città
che un terremoto schianta,
come un albero maestro colpito da un fulmine,
come un albero sradicato dal vento
rotola qua e là,
come una tromba marina sormontata da schiuma
si abbatte a precipizio sul mare
alla fine crollò;
passato il piacere e passato il tormento,
è vita questa o è morte?

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Vita dalla morte.
Per tutta quella notte Lizzie vegliò accanto a lei
Contò il fremito vacillante del polso
Cercò di percepire il suo respiro,
portò acqua alle sue labbra, e le rinfrescò il viso
con le lacrime e sventolando foglie:
ma quando i primi uccelli cantarono presso la grondaia,
e i primi mietitori si trascinavano sul posto
dei covoni d’oro,
e l’erba bagnata di rugiada
si piegava ai venti mattutini così veloci a passare,
e nuove gemme col nuovo giorno
sbocciarono come calici di gigli sul ruscello,
Laura si svegliò come da un sogno,
rise nel modo innocente di una volta,
abbracciò Lizzie ma non solo due o tre volte;
i suoi splendidi riccioli non mostravano nemmeno un filo di grigio,
il suo alito era dolce come il Maggio
e la luce danzava nei suoi occhi.

Giorni, settimane, mesi, anni
Dopo, quando entrambe erano mogli
Con i bambini loro;
i loro cuori di madre pieni di paure,
le loro vite dedite alle tenere vite;
laura chiamava i piccoli
e raccontava loro della sua prima giovinezza,
quei bei giorni da lungo andati
del tempo che non ritorna:
parlava della vallata infestata,
dei perfidi, curiosi mercanti di frutta,
quella frutta che era miele al palato
ma veleno nel sangue;
(frutta così non si vende in nessuna città)
Raccontava loro come sua sorella resistette
al pericolo mortale per il suo bene,
e si procurò l’antidoto infuocato:
poi unendo le mani alle piccole mani
li invitava a restare uniti,
“perché non c’è un’amica come una sorella,
nel bello o brutto tempo,
per confortarti sulla strada noiosa,
per andarti a prendere se ti smarrisci,
per sollevarti se stai per cadere giù,
per rinforzarti quando ti reggi in piedi.

Traduzione del regista sceneggiatore Pietro Bontempo
Diffuso dall’I.C. di Torano Castello - Lattarico

Altre pagine dell'edizione Grant: