[HBO] Watchmen

L'America non vive di soli hamburger ma anche di una grassissima infornata annuale di serie tv di tutti i generi, dal tentacolare procedural a piccole grandi epiche.
  • Diego ha scritto:Vuole essere completamente indipendente o richiede come prerequisito aver letto il fumetto originale?
    Non è un dubbio cosí importante, secondo me. È anzi tipico delle opere derivative: devono essere entrambe le cose. L'opera originale appartiene a un'epoca trascorsa. Riprenderla in mano vuol dire sia omaggiarla sia emanciparsene. La questione non è in quale delle due cose riesca, ma quanto riesca a bilanciarle. Difficile giudicarlo, però: chi ha letto il fumetto non può capire quanto se ne emancipi e chi non l'ha letto non può capire quanto lo omaggi.

    Se tentiamo un'analisi vediamo innanzitutto che i primi due episodi si affidano molto poco all'opera originale. La mole di riferimenti che arriverà dopo potrà pure essere tanta, ma a quel punto avrà già messo in gioco una posta sufficientemente alta anche per gli spettatori vergini.

    Gli episodi 3 e 4 quindi si dedicano al riferimento all'opera di Moore&Gibbons con l'arrivo del primo personaggio protagonista in comune col fumetto, Laurie Blake, già Laurie Juspeczyk, ovvero Silk Spectre II e la sua lunghissima telefonata-barzelletta al Dottor Manhattan che da una parte, con estrema sottigliezza, sparge semi di riferimenti a altri personaggi del fumetto, e dall'altra fa da cornice alla storia contemporanea. Non so se ci rendiamo conto che l'alternativa a questo sarebbe dovuta essere uno "spiegone". Qui si vedono i frutti della palestra di Lost, che col suo intrico di personaggi obbligò Lindelof e Cuse a sperimentare ogni sorta di formato narrativo e cinematografico per alludere alle imprescindibili backstory che hanno dato spessore ai personaggi per sei anni. In Watchmen ritroviamo i flashback, le cornici, il montaggio analogico (delle immagini e del sonoro).

    Con gli episodi 5 e 6 cominciano quelle che in Lost chiamavamo le "centricità", cioè la caratteristica, in una storia corale, di un episodio che si concentra su un personaggio in particolare, raccontando il suo passato o assumendo temporaneamente il suo punto di vista. Questa caratteristica è un agile veicolo per i colpi di scena e i cliffhanger, perché per tutto il tempo la storia viene ridimensionata solo per poi svelare la sua funzione importante nel quadro generale (e che quindi andrà ripresa in seguito anche dagli altri personaggi o da altri punti di vista). È inevitabile a quel punto affezionarsi ai personaggi, nobilitati alla radice, e cominciare a apprezzare i dettagli dell'intreccio. Altra conseguenza di ciò è la ricerca dei contenuti extra che tengano traccia di questi dettagli, contenuti che (come in Lost!!1) questa serie ha prontamente messo a disposizione su internet.

    L'episodio 7 è "l'inizio della fine" (ancora Lost!!!!!!!É), il primo dei tre episodi in cui si diluirà il finale (come i finali di stagione in tre parti di Lost!!!!!!!!!!!!!!!!!). E, come le ultime stagioni di Lost, soffre nel cominciare a rivelare soluzioni e segreti, didascalicamente e in certi casi scadendo in ridicole leggerezze. Questo calo repentino mi fa temere per il gran finale, ma non dispero ancora.

    Al netto di questa sommaria analisi strutturale, il Watchmen di Damon Lindelof ha superato le mie aspettative sia nel riferirsi all'opera originale sia nell'inventare una storia nuova. Non avevo alcuna idea di come avrebbe potuto procedere, ma mi accorgo che ha compiuto una scelta quasi inevitabile, indirizzata già dallo spirito del fumetto di Alan Moore:
    1) la retorica supereroistica (con la minaccia apocalittica sia realistica sia fantascientifica)
    2) la spietata satira contemporanea (persino "divisiva", qualcuno oserà dire), partendo persino da basi ottimistiche (la vittoria in Vietnam, nel fumetto; la "fine" del razzismo, nel telefilm)
    3) il cast corale e la sua storia di miseria mondana (e riscatto ultramondano).

    Il Watchmen di Lindelof fa la stessa scelta ardimentosa del musical Hamilton nel riscrivere una storia americana che abbia finalmente il suo fulcro nell'accettazione degli afro-americani (Hamilton lasciando interpretare i padri fondatori a degli attori neri; Watchmen immaginando le "redfordation", cioè i vitalizi per gli eredi delle vittime delle stragi razziali, stragi che nell'America reale si cerca invece di dimenticare quando non si cerca addirittura di giustificare o negare). Il cast corale è quello della Polizia di Tulsa, Oklahoma, dove gli eredi della (vera) strage che lì ebbe luogo nel 1921 oggi costituiscono la facoltosa classe dirigente. Eletta, nel cast, è la protagonista Angela Abar (interpretata dalla sublime Regina King, che consiglio di ammirare nel suo ruolo da Oscar in Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins, e che compare anche nell'altra serie di Lindelof The Leftovers). È lei a costituire il principale anello di congiunzione con i personaggi del fumetto (qualcuno doveva pur esserlo), come scopriamo nei colpi di scena pazzeschi degli episodi 6 e 7. Parallelamente tornano in scena anche Ozymandias, recluso (dicono) su una luna di Giove e interpretato da un divino (in tutti i sensi) Jeremy Irons, e Silk Spectre II, per tacere poi dei Minutemen, a cui è dedicato un meta-documentario.

    Bellissime le operazioni musicali, infine (come in Lost! Come in Westworld! Come in Twin Peaks - Il ritorno!), sia nelle canzoni di repertorio sia nella colonna sonora metal (a volte vintage) dei geniali Trent Reznor e Atticus Ross (premi Oscar per The Social Network e ospiti nella memorabile Part 8 di Twin Peaks - Il ritorno). Sono usciti finora due album della colonna sonora e è in arrivo il Vol. 03.

    A due episodi e una settimana dal finale, questo Watchmen già guadagna primati che sognavo ma non speravo: è la miglior derivazione possibile del capolavoro di Moore in termini di rispetto, creatività e coscienza sociale; è una nuova vetta nella carriera di Lindelof, sopraffino interprete dello zeitgeist e destreggiatore della tecnica narrativa, allievo riconoscente di maestri e, con discrezione rara, maestro lui stesso; è uno dei migliori telefilm dell'anno (forse il migliore, devo ancora riflettere sul resto) e probabilmente di sempre.
    “DISCUSSIONE, NON RECENSIONE!”

    :solly:
  • “DISCUSSIONE, NON RECENSIONE!”

    :solly:
  • Partiamo dal finale. Raccoglie i pezzi di quanto visto e tira le fila, non attua stravolgimenti, non cerca sconvolgimenti e qualcuno infatti si è lamentato. Forse qualche dettaglio differente l’avrei voluto pure io, ma nel complesso direi che c’è stata onestà e zero voglia di strafare. E Lindelof poteva permetterselo, visto che i suoi assi li ha calati prima, con una tripletta di episodi che hanno fatto piazza pulita di ogni dubbio, scetticismo e resistenza da parte dei puristi.

    Sono fra quelli che si dichiarano entusiasti di questo seguito di Watchmen. Lindelof ha settato un nuovo standard qualitativo nella rincorsa all’emulazione dei mostri sacri che caratterizza questa nostra epoca. Si è scelto uno dei più sacri, uno dei più mostri, e con classe, finezza e rara intelligenza ha dimostrato al sistema come è possibile fare il seguito di Watchmen e uscirne bene.

    Tanto per cominciare, ha finto di star raccontando tutt’altro, celando in ogni modo la natura del suo progetto. E nel frattempo dimostrava al pubblico di aver capito Moore, smontandone lo stile pezzo per pezzo e rimontando il giocattolo al servizio di un nuovo scenario. Lindelof si è letteramente trasformato in un moderno Alan Moore: non l’ha sterilmente scimmiottato, ma ha imparato a ragionare come lui, ha applicato la sua lente e la sua cifra stilistica ai nuovi USA, quelli che fanno parte del suo vissuto e ce li ha raccontati alla maniera di Moore, dopo averla resa la sua.

    Poi, quando ormai ci ha convinti di aver assorbito il DNA stilistico di Moore e di essersi limitato ad una sorta di seguito “morale” di Watchmen, ha sganciato una serie di siluri in sequenza che l’hanno reso il sequel effettivo, l’unico possibile. Senza risparmiarsi, senza aver paura di sfidare mostri sacri, di contraddire, retconizzare o prendersi gioco dello stesso Moore. Facendolo a pezzi con una certa spavalderia, ma senza mai dimenticarsi di giustificare ogni sua provocazione. Dopotutto stiamo parlando di Alan Moore, uno che si dissocia per partito preso da qualsiasi forma di adattamento delle sue opere, ma che nell’effettivo ha campato per anni sulla decostruzione dei personaggi altrui: La Lega degli Straordinari Gentlemen, Providence, lo stesso Watchmen sono sempre stati sue risposte a pantheon preesistenti. E Lindelof questo l’ha capito fin troppo bene, e ha compreso che l’unico modo per rispettare l’eredità di Alan Moore era mandarlo a fare in culo.

    Il risultato è superbo, denso di contenuto e stilisticamente eccentrico. Tanti sono gli elementi in grado di imprimersi nella memoria, tanti i momenti surreali, i dialoghi stranianti, tantissime le simbologie, mordace l’umorismo. Ma soprattutto Lindelof eredita da Moore quell’idea di scrittura a strati, in cui ogni elemento è portatore di più di un significato, a seconda di quanto lo spettatore sia disposto a scavare. E la porta su schermo sfruttando pienamente le potenzialità del nuovo medium. Un esempio? La musica. Ogni episodio di Watchmen è un florilegio di brani preesistenti ma collocati strategicamente per lanciare indizi e segnali allo spettatore. Ecco quindi il Clair De Lune di Debussy a suggerire la reale collocazione dell’Eden di Veidt, le primissime note del Life on Mars di Bowie che anticipano il ritorno di Doc Manhattan e la Rapsodia in Blu di Gerswhin quando finalmente entra in scena.

    E il paradosso più grosso di tutti è che questo modo di fare le cose, questo approccio narrativo, questa eleganza ce l’avevamo avuta davanti per anni. Lindelof scrive così da sempre. Si notava già nell’ormai dimenticatissimo Tomorrowland di Brad Bird e soprattutto in Lost, quello stesso Lost caduto vittima dell’hype e diventato il bersaglio della prima grande shitstorm mediatica del nostro tempo (seguirono SW 8 e GoT). In Lost c’era già tutto: frasi a effetto, situazioni stranianti, personaggi di spessore, colonna sonora preziosa, umorismo arguto, narrazione non lineare che in alcuni casi diventava addirittura diegetica (Desmond come Doc), finezze ed eleganza. Se Watchmen vi è piaciuto fatevi un favore, ignorate questa vergognosa pagina della storia di internet che ha condannato Lost alla damnatio memoriae e andate a riscoprire una vera gemma.
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