Diego ha scritto:Vuole essere completamente indipendente o richiede come prerequisito aver letto il fumetto originale?
Non è un dubbio cosí importante, secondo me. È anzi tipico delle opere derivative: devono essere entrambe le cose.
L'opera originale appartiene a un'epoca trascorsa. Riprenderla in mano vuol dire sia omaggiarla sia emanciparsene. La questione non è in quale delle due cose riesca, ma quanto riesca a bilanciarle. Difficile giudicarlo, però: chi ha letto il fumetto non può capire quanto se ne emancipi e chi non l'ha letto non può capire quanto lo omaggi.
Se tentiamo un'analisi vediamo innanzitutto che i primi due episodi si affidano molto poco all'opera originale. La mole di riferimenti che arriverà dopo potrà pure essere tanta, ma a quel punto avrà già messo in gioco una posta sufficientemente alta anche per gli spettatori vergini.
Gli episodi 3 e 4 quindi si dedicano al riferimento all'opera di Moore&Gibbons con l'arrivo del primo personaggio protagonista in comune col fumetto, Laurie Blake, già Laurie Juspeczyk, ovvero Silk Spectre II e la sua lunghissima telefonata-barzelletta al Dottor Manhattan che da una parte, con estrema sottigliezza, sparge semi di riferimenti a altri personaggi del fumetto, e dall'altra fa da cornice alla storia contemporanea. Non so se ci rendiamo conto che l'alternativa a questo sarebbe dovuta essere uno "spiegone". Qui si vedono i frutti della palestra di
Lost, che col suo intrico di personaggi obbligò Lindelof e Cuse a sperimentare ogni sorta di formato narrativo e cinematografico per alludere alle imprescindibili backstory che hanno dato spessore ai personaggi per sei anni. In
Watchmen ritroviamo i flashback, le cornici, il montaggio analogico (delle immagini e del sonoro).
Con gli episodi 5 e 6 cominciano quelle che in
Lost chiamavamo le "centricità", cioè la caratteristica, in una storia corale, di un episodio che si concentra su un personaggio in particolare, raccontando il suo passato o assumendo temporaneamente il suo punto di vista. Questa caratteristica è un agile veicolo per i colpi di scena e i cliffhanger, perché per tutto il tempo la storia viene ridimensionata solo per poi svelare la sua funzione importante nel quadro generale (e che quindi andrà ripresa in seguito anche dagli altri personaggi o da altri punti di vista). È inevitabile a quel punto affezionarsi ai personaggi, nobilitati alla radice, e cominciare a apprezzare i dettagli dell'intreccio. Altra conseguenza di ciò è la ricerca dei contenuti extra che tengano traccia di questi dettagli, contenuti che (come in
Lost!!1) questa serie ha prontamente messo a disposizione su internet.
L'episodio 7 è "l'inizio della fine" (ancora
Lost!!!!!!!É), il primo dei tre episodi in cui si diluirà il finale (come i finali di stagione in tre parti di
Lost!!!!!!!!!!!!!!!!!). E, come le ultime stagioni di
Lost, soffre nel cominciare a rivelare soluzioni e segreti, didascalicamente e in certi casi scadendo in ridicole leggerezze. Questo calo repentino mi fa temere per il gran finale, ma non dispero ancora.
Al netto di questa sommaria analisi strutturale, il
Watchmen di Damon Lindelof ha superato le mie aspettative sia nel riferirsi all'opera originale sia nell'inventare una storia nuova. Non avevo alcuna idea di come avrebbe potuto procedere, ma mi accorgo che ha compiuto una scelta quasi inevitabile, indirizzata già dallo spirito del fumetto di Alan Moore:
1) la retorica supereroistica (con la minaccia apocalittica sia realistica sia fantascientifica)
2) la spietata satira contemporanea (persino "divisiva", qualcuno oserà dire), partendo persino da basi ottimistiche (la vittoria in Vietnam, nel fumetto; la "fine" del razzismo, nel telefilm)
3) il cast corale e la sua storia di miseria mondana (e riscatto ultramondano).
Il
Watchmen di Lindelof fa la stessa scelta ardimentosa del musical
Hamilton nel riscrivere una storia americana che abbia finalmente il suo fulcro nell'accettazione degli afro-americani (
Hamilton lasciando interpretare i padri fondatori a degli attori neri;
Watchmen immaginando le "
redfordation", cioè i vitalizi per gli eredi delle vittime delle stragi razziali, stragi che nell'America reale si cerca invece di dimenticare quando non si cerca addirittura di giustificare o negare). Il cast corale è quello della Polizia di Tulsa, Oklahoma, dove gli eredi della (vera) strage che lì ebbe luogo nel 1921 oggi costituiscono la facoltosa classe dirigente. Eletta, nel cast, è la protagonista Angela Abar (interpretata dalla sublime Regina King, che consiglio di ammirare nel suo ruolo da Oscar in
Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins, e che compare anche nell'altra serie di Lindelof
The Leftovers). È lei a costituire il principale anello di congiunzione con i personaggi del fumetto (qualcuno doveva pur esserlo), come scopriamo nei colpi di scena pazzeschi degli episodi 6 e 7. Parallelamente tornano in scena anche Ozymandias, recluso (dicono) su una luna di Giove e interpretato da un divino (in tutti i sensi) Jeremy Irons, e Silk Spectre II, per tacere poi dei Minutemen, a cui è dedicato un meta-documentario.
Bellissime le operazioni musicali, infine (come in
Lost! Come in
Westworld! Come in
Twin Peaks - Il ritorno!), sia nelle canzoni di repertorio sia nella colonna sonora metal (a volte vintage) dei geniali Trent Reznor e Atticus Ross (premi Oscar per
The Social Network e ospiti nella memorabile
Part 8 di
Twin Peaks - Il ritorno). Sono usciti finora due album della colonna sonora
e è in arrivo il Vol. 03.
A due episodi e una settimana dal finale, questo
Watchmen già guadagna primati che sognavo ma non speravo: è la miglior derivazione possibile del capolavoro di Moore in termini di rispetto, creatività e coscienza sociale; è una nuova vetta nella carriera di Lindelof, sopraffino interprete dello zeitgeist e destreggiatore della tecnica narrativa, allievo riconoscente di maestri e, con discrezione rara, maestro lui stesso; è
uno dei migliori telefilm dell'anno (forse il migliore, devo ancora riflettere sul resto) e probabilmente di sempre.