Continua il nostro viaggio nella storia di Nintendo. Quelli che ci apprestiamo ad analizzare sono anni ruggenti per la compagnia di Kyoto, durante i quali rilascia alcuni dei suoi giochi più belli e inizia a dividere la propria produzione su due console.
Il Tramonto del Famicom
Alla fine degli anni ’80 il Famicom iniziò ad apparire come obsoleto. I giochi rilasciati in questa fase crepuscolare (su ormai capienti cartucce, accantonando il Disk System), come il capolavoro Super Mario Bros. 3 (con Takashi Tezuka alla direzione e il mentore Miyamoto nel più defilato ruolo di producer) o il folle e geniale RPG MOTHER (un vero e proprio open world ante-literram, sviluppato da un team ad hoc di Nintendo da un’idea di Shigesato Itoi), spremevano all’inverosimile una console progettata quasi 10 anni prima, che stava iniziando inevitabilmente ad esaurire le proprie – è il caso di dirlo! – cartucce.
Vari sviluppatori di videogiochi desideravano una macchina più performante. Le prime risposte arrivarono sotto forma delle console Mega Drive, di SEGA, e PC-Engine, di NEC e Hudson. Nessuna di queste riuscì ad affermarsi come successore del Famicom: la console SEGA si rivolgeva a un pubblico radicalmente diverso da quello più “universale” di Nintendo, proponendo in primo luogo conversioni di giochi arcade (una filosofia che sarebbe stata poi esacerbata dal NEO·GEO di SNK qualche anno dopo), mentre il PC-Engine, pur ottenendo un discreto successo, risultò sul lungo termine limitato dalle specifiche tecniche: forse per invogliare quanti più sviluppatori possibili, il suo processore era derivato da quello del Famicom. A titolo di curiosità segnaliamo che lo stesso Hiroshi Yamauchi diede la sua benedizione a Hudson per il lancio del PC Engine: le due compagnie non si ritenevano concorrenti, e Hudson continuò anche a sviluppare giochi per le console Nintendo.
Super Famicom, Super Nintendo, Super Sinergia
Il Super Famicom venne rilasciato in Giappone nel 1990 e solo l’anno successivo in America con il nome di Super Nintendo Entertainment System (un considerevole ritardo che permise alla console SEGA di ottenere, all’estero, un ottimo riscontro, soprattutto grazie alla mascotte Sonic the Hedgehog). La squadra dietro il Super Famicom fu la stessa, collaudata, del predecessore: il team di Masayuki Uemura si occupò dell’hardware, quello di Genyo Takeda dei supporti. Le cartucce del Super Famicom erano dotate di una particolarità: molte di esse ospitavano al loro interno non soltanto la ROM del gioco, ma anche dei particolari chip che venivano adibiti a co-processori: così, un gioco di lancio come Pilotwings poteva contare su una potenza computazionale superiore a quella offerta dal solo processore della console (venduta quindi a un prezzo più basso o con maggiori margini di guadagno), grazie al particolare chip DSP-1. Da un punto di vista tecnico la console poteva comunque vantare uno speciale chip audio prodotto da Sony.
Il Presidente Yamauchi annunciò il Super Famicom insieme ai nuovi episodi delle due serie nazionalpopolari in Giappone: Super Mario Bros. e Dragon Quest di Enix. Il supporto delle terze parti non mancò e in poco tempo uscirono sulla console Nintendo le nuove versioni di Rockman (MegaMan), Akumajō Dracula (Castlevania), Final Fantasy, Makaimura (Ghosts ‘n Goblins). Spesso questi giochi rivisitavano idee, personaggi o mondi dei vecchi episodi Famicom. Una cultura videoludica nipponica si era ormai sviluppata e si guardava al passato sia con un velo di nostalgia, sia con la volontà di superarlo grazie al nuovo hardware.
Nello sviluppo del Super Famicom (e del suo controller) ebbe un ruolo chiave anche il team di Miyamoto, che nel 1989 cambiò definitivamente nome in EAD (Entertainment Analysis & Development), affrancandosi dalla vecchia numerazione aziendale. In un report del 1993 Nintendo individua come cardine del proprio successo la “Super Sinergy” fra reparto hardware e software ed effettivamente è EAD la vera artefice dell’ascesa del Super Famicom. Il primo anno di vita della console vede lo sbarco a 16bit di Mario, la versione console di SimCity,le prime sperimentazioni con mondi 3D con F-Zero e il già citato Pilotwings, e culmina con il lancio dello straordinario Zelda no Densetsu: Kamigami no Triforce (in Occidente, A Link to the Past).
Esplorare Livelli e Labirinti
Il focus di Super Mario World, che segna il debutto del simpatico sauro Yoshi, è l’esplorazione di un vasto mondo interconnesso, ricco di uscite segrete. Il level design è così particolarmente “stratificato”: ogni livello può essere affrontato da Mario in solitaria o in coppia con Yoshi, con o senza uno degli svariati power-up del gioco (fra cui la cappa, che permette all’idraulico di – letteralmente – volare sopra il livello) e il giocatore può decidere se, semplicemente, completare il gioco affrontando Bowser o cercare ogni singola uscita segreta. World è decisamente più semplice dei predecessori, ma al giocatore è lasciata la possibilità di non usare Yoshi o i vari potenziamenti di Mario. In un’intervista del 1990, Miyamoto commenta così questo approccio particolarmente elegante alla difficoltà nei videogiochi: Una problematica dei giochi d’azione è come realizzare qualcosa che possa essere apprezzato a tutti i livelli d’abilità, da chi è agli inizi ai giocatori più esperti. Una possibilità è aggiungere una “Easy Mode”, ma penso che il metodo migliore sia quando il giocatore può calibrare da solo la difficoltà, giocando. […] È da un po’ che voglio realizzare un gioco in cui lo scopo non sia semplicemente raggiungere la fine del livello – un gioco in cui anche dopo aver superato il livello, ancora vuoi tornarci ed esplorarlo, conoscerlo di più. Per questo, realizzare livelli più facili è un pre-requisito.
Mentre il level design di Mario guarda a nuovi territori, spostando il focus della serie dal semplice completamento del livello all’esplorazione dei suoi luoghi più reconditi, il gameplay di Zelda raggiunge la maturità in A Link to the Past. Oltre a riprendere alcuni elementi più strettamente adventure dell’atipico secondo episodio (i villaggi e diversi personaggi non giocabili, spalmati su ben due mondi), canonizzandoli in una struttura più tradizionale, A Link to the Past pone grande attenzione alla struttura dei vari labirinti che Link e il giocatore devono affrontare. I labirinti di A Link to the Past cessano di essere semplici funzioni ludiche, ma trovano giustificazione narrativa all’interno del mondo di gioco (un castello, una torre, un covo di ladri, una foresta maledetta). Talvolta al giocatore è poi richiesto di pensare ai labirinti come a degli spazi reali, con enigmi che si dipanano su più stanze (o più piani, o dentro e fuori e il labirinto): la Torre di Hera, in particolare, è già in tutto e per tutto uno spazio tridimensionale, pur se rappresentato bidimensionalmente. A ciascun labirinto è anche associato uno specifico oggetto, ma tuttavia ancora non necessariamente quell’oggetto è la chiave risolutrice degli enigmi circostanti: ci sono ancora alcuni angoli da smussare, ma comunque A Link to the Past introduce una formula che, con poche variazioni, sarà mantenuta per i successivi 25 anni. Questo focus sui labirinti e la risoluzione di enigmi allontana Zelda dai giochi d’azione, avvicinando la serie ai giochi d’avventura: A Link to the Past è ancora un gioco con un’alta difficoltà, ma è apprezzabile anche da chi, non interessato a sconfiggere mostri e cavalieri, cerca un gameplay più “riflessivo” (similmente, Super Mario World con i suoi segreti può essere apprezzato da chi non ama i giochi platform). Allo stesso tempo, tuttavia, Zelda non è un’avventura grafica “stile Portopia”. Il giocatore ha, ovviamente, il controllo diretto del personaggio, non mediato da menù. Il feedback “tattile” che il controller dà al giocatore è inteso come controparte nel mondo reale dell’azione che avviene a schermo: ad esempio, “Link che a lungo tira una leva” si traduce in “il giocatore a lungo preme un tasto”. Miyamoto in un’intervista del 1994 lo specifica bene e fa prendere alla serie le distanze da giochi di altri generi. “I giochi d’avventura e i giochi di ruolo sono giochi dove avanzi nella storia solo attraverso dialoghi, ma noi volevamo che il giocatore sperimentasse davvero la sensazione fisica di usare un controller e muovere il personaggio nel mondo di gioco.“
I giochi EAD per Super Famicom sono tutti progetti a cui Miyamoto lavora intensamente, ma meno personali di Donkey Kong, Super Mario Bros. e il primo The Legend of Zelda. Sotto l’occhio vigile di Shigeru, alla direzione di Super Mario World e A Link to the Past troviamo ancora Tezuka (in questi anni vero mattatore di Mario e Zelda), Tadashi Sugiyama dirige Pilotwings e, con Hideki Konno, Super Mario Kart. A capo del gruppo dietro l’ambiziosa produzione di Star Fox, composto sia dal personale EAD che dai ragazzi dall’inglese Argonaut Software, è presente invece Katsuya Eguchi e due delle principali menti dietro Yoshi’s Island – stupendo ultimo saluto del team al Super Famicom – furono Shigefumi Hino e Hisashi Nogami. EAD in questo periodo è in piena espansione e pian piano inizia a formarsi una nuova generazione di game designer, che in futuro succederanno con successo a Miyamoto e Tezuka.
Videogiochi in Bianco & Nero
Il Super Famicom non è l’unica console Nintendo protagonista degli anni ’90. Nel 1989 uscì infatti il Game Boy. La prima console portatile Nintendo fu sviluppata interamente da R&D1, inizialmente come successore dei Game & Watch: svela Florent Gorges che ogni dispositivo targato Game Boy avrebbe dovuto avere un gioco integrato, che non sarebbe stato possibile sostituire. Accettare il sistema “a cartucce” introdotto dal Famicom avrebbe significato riconoscere un certo debito a Uemura e il resto di R&D2: un duro colpo per l’orgoglio di Gunpei Yokoi, ancora a capo di R&D1. Il Game Boy nasce così come idea di Yokoi, ma è effettivamente ideato e progettato dal pragmatico Satoru Okada. Il resto di Nintendo non credeva molto nel progetto: internamente, facendo il verso al nome in codice DMG (Dot Matrix Game), la console fu soprannominata DameGame (SchifoGame).
R&D1 si occupò anche del software per Game Boy: realizzò nuovi capitoli di giochi nati sul Famicom come gli sportivi Baseball e Tennis e ideò semplici giochi come il simpatico sparatutto verticale Solar Strikers, il clone di Breakout Alleway, e soprattutto Tetris, vera killer application del Game Boy. Secondo un diffuso luogo comune, il Game Boy avrebbe ottenuto il suo incredibile successo grazie a giochi “come Tetris” pensati per un uso portatile: senza nulla togliere al successo e al ruolo fondamentale di Tetris, in realtà consultando la classifica dei giochi Nintendo più venduti per Game Boy, troviamo in pole position – oltre a Tetris e il successivo fenomeno Pokémon – episodi portatili di proprietà intellettuali nati su home console, come Super Mario, Donkey Kong e The Legend of Zelda, o che successivamente sarebbero sbarcati sulle console casalinghe, come Kirby. I punti di forza del Game Boy, insomma, sono altri: il prezzo competitivo, l’ottima durata delle batterie e la sua identità di “Famicom portatile” (come venne pubblicizzata sui giornali giapponesi) grazie alla presenza dei grandi giochi Nintendo. Abbiamo già citato il report aziendale del ’93 parlando della “Super Sinergy”. Lo stesso documento elogia come punto di forza di Nintendo i suoi svariati personaggi e su Game Boy non mancarono quindi nuovi episodi di Mario e Zelda. La centralità di personaggi iconici nel business di Nintendo, quelli in Occidente noti come mascotte e in Giappone come kyara, è un altro punto di contatto fra l’azienda di Kyoto e l’industria dell’animazione, orientale e occidentale.
Un altro luogo comune suggerisce che questi grandi giochi per Game Boy siano stati sviluppati dalle stesse persone dietro i successi casalinghi, lasciando intendere che, a differenza delle concorrenti, Nintendo abbia sempre riservato al mercato portatile la stessa attenzione dedicata alle console casalinghe. Ma le cose non sono mai andate propriamente così. All’aneddoto del DameGame si accompagna un fatto abbastanza eloquente: nell’arco di 18 anni, per tre diversi modelli di Game Boy (l’originale, il Color e l’Advance), EAD sviluppò interamente soltanto un – bellissimo – gioco, l’episodio Yume o Miru Shima della saga di Zelda (Link’s Awakening), e collaborò a poco più di una mezza dozzina (Donkey Kong, Wave Race, Mole Mania, Radar Mission e con un ruolo ancor più minore al primo Kirby e gli Zelda di Capcom).
I Capolavori del Game Boy
Link’s Awakening fu un gioco sperimentale e fondamentale per la storia della serie: se A Link to the Past ne aveva perfezionato il gameplay, Awakening ne codificò l’estetica e la narrativa; grazie all’apporto del giovane Yoshiaki Koizumi, talentuoso narratore laureato in cinematografia e animazione, la principessa Zelda incontrò per la prima volta i personaggi buffi che l’avrebbero accompagnata per i successivi anni e imparò lo struggente significato di malinconia. Non a torto Tezuka definisce Koizumi “un romantico”. Ma ironia della sorte, uno dei giochi più belli per Game Boy è figlio proprio della sufficienza con cui EAD vedeva la consolina: Non eravamo particolarmente interessati a fare un gioco di Zelda per Game Boy, ricorda Tezuka. Lo sviluppo di Awakening nasce come una sorta di “attività doposcuola”: più un gioco che un lavoro di alcuni membri di EAD, che si sentirono liberi di osare e rompere gli schemi proprio perché, comunque andasse, il gioco “era per Game Boy”.
Fu invece R&D1 a sviluppare la maggior parte dei “pezzi da Novanta” del Game Boy. Il disinteresse di EAD portò un piccolo team ad elaborare il semplice, e invero poco riuscito, Super Mario Land. Più interessante il successivo Super Mario Land 2, diretto da Hiroji Kiyotake e Takehiko Hosokawa, che si allontana dai Mario made in EAD tanto per l’ambientazione quanto per il gameplay. Per adattarsi al piccolo schermo del Game Boy, i livelli di Mario Land 2 sono molto meno densi di piattaforme, i nemici cessano di essere parte integrante del level design apparendo più come semplici ostacoli e generalmente il ritmo è più lento e rilassato di quello di Mario 3 o World. Più che un sequel di Super Mario Bros., il gioco appare più come la strana avventura di Mario in un mondo folle e privo di regole: l’idraulico se la vede con strani uccellacci, fantasmi, orsetti giocolieri, soldatini giocattolo e via dicendo, tutti nemici ottimamente caratterizzati. Il gioco segna anche il debutto di Wario, controparte malvagia di Mario: la mascotte EAD cederà poi il passo al grottesco personaggio di R&D1 nel sequel del gioco, Super Mario Land 3: Wario Land. Negli anni, esacerbando alcuni elementi del game design di Mario Land 2, a vario titolo Kiyotake e Hosokawa porteranno avanti la serie con Wario su Game Boy, Virtual Boy e Game Boy Color, abbandonando quasi totalmente le origini platform per proporre mix sempre più strampalati di esplorazione, action e puzzle. In questo senso, più che una controparte portatile della serie Super Mario Bros., Super Mario Land 2 costituisce “l’episodio pilota” della serie Wario Land.
Mario Land 2 aveva un approccio particolare all’esplorazione: offriva una grande mappa centrale, che collegava fra loro vari mondi, affrontabili in qualsiasi ordine. Qualcosa di simile fa METROID II: Return of Samus (1991), diretto sempre da Kiyotake assieme a Hiroyuki Kimura. A Samus è affidato il compito di sterminare tutti i Metroid presenti nelle viscere del pianeta SR388 e così alla mappa di Mario Land 2 si sostituisce un hub centrale, collegato a varie zone ciascuna contenente quantità (e particolarità) diverse di Metroid, che il giocatore può sconfiggere (quasi) a proprio piacimento. METROID II è anche un gioco narrativamente significativo: senza nessuna cut-scene e nessun dialogo, riesce a raccontare al giocatore la storia del pianeta SR388, la nascita dei Metroid, la loro evoluzione e il loro – apparente – sterminio per mano di Samus. Una forma particolare di narrazione che diverrà emblema della serie, alla cui genesi non partecipano però né Sakamoto né Osawa. In quel periodo i genitori di Famicom Tantei sono impegnati nella realizzazione di Kaeru no Tame ni Kane wa Naru (1992), un’esilarante avventura, vera e propria parodia del genere “cappa e spada” (con qualche strizzata d’occhio, ovviamente, a Zelda), purtroppo mai edita in Occidente.
Rompicapi per tutti i gusti
Tetris è l’unico rompicapo del Game Boy ad ottenere un super-successo, ma non è l’unico rompicapo che Nintendo pubblicò in questi anni. Sulla sua scia R&D1 realizzò, sia su Famicom che su Game Boy, Dr. Mario (1990) e, in collaborazione con l’azienda Bullet-Proof Software, Yoshi no Cookie (1992) e Tetris Flash (1993). In questo filone si inserì anche R&D2 con Wario no Mori (Wario’s Woods), ultimo gioco per Famicom uscito nel 1994 e ideale chiusura del cerchio: il commiato alla prima console Nintendo fu diretto da Kenji Miki, lo stesso che aveva realizzato i primi giochi sportivi per la console.
Eccetto Dr. Mario, uno dei pochi videogiochi la cui paternità si può ascrivere a Yokoi in prima persona, i rompicapi di R&D1 furono diretti da Hitoshi Yamagami. Yamagami è anche la principale mentre dietro Panel de Pon (1995) per Super Famicom, sviluppato con Intelligent Systems, in cui i blocchi non cadono più dall’alto come in Tetris ma, prendendo spunto dal Gioco del quindici su suggerimento di Yokoi, sono tutti già disposti e il giocatore ha il compito di riordinarli e combinarli a secondo del colore, possibilmente generando delle combo. Panel de Pon si distingue anche per le sue varie modalità di gioco (in una, ad esempio, sono proposte delle missioni con un numero limitato di mosse, a tutti gli effetti trasformandolo in un gioco di strategia), e il suo mondo ben caratterizzato: Panel de Pon racconta la storia della fatina Lip e la sua lotto contro il malvagio Sanatos.
In Occidente purtroppo Lip non riuscì a imporsi. Le fatine di Panel de Pon, giudicate troppo lontane dai gusti occidentali, furono sostituite da Yoshi e i personaggi di Yoshi’s Island e il gioco fu rinominato Tetris Attack, pur avendo poco a che fare con il capolavoro russo: l’identità di Panel de Pon fu così schiacciata dai brand di Mario e Tetris. Comunque, con Panel de Pon e gli altri giochi puzzle di Yamagami si creò dentro R&D1 una “scuola di rompicapo”, che affiancò la “scuola narrativa” di Sakamoto e Osawa.
L’Eclissi del Vecchio Team
Al di là di Panel de Pon l’apporto di R&D1 al Super Famicom è stato trascurabile, composto per lo più da poco interessanti giochi per la periferica Super Scope o, a console ormai morente, riedizioni di classici Famicom (nel 1998 il secondo Famicom Tantei e Wrecking Crew subirono un ammodernamento). L’unica eccezione, sempre sviluppata con la fidata Intelligent Systems, è costituita dal mastodontico SUPER METROID (1994): narrativamente il gioco è la summa dei precedenti esperimenti di tutto il team R&D1, unendo il particolare stile narrativo di METROID II al coinvolgimento emotivo di Famicom Tantei Club. Ma anche come gameplay il gioco non sfigura affatto comparato ai classici EAD: Samus è un personaggio agile con un vasto repertorio di mosse – alcune delle quasi riservate ai giocatori più bravi – che dovrà sfruttare a pieno per sopravvivere all’impervia Zebes. Il pianeta di SUPER METROID non è solo un mondo: è un ecosistema vivo, in dialogo costante tanto con il giocatore quanto con il personaggio.
Non ci è dato sapere perché al team di SUPER METROID non sia stata data la possibilità di dare ulteriore sfogo al proprio estro. Le ragioni sono, forse, strettamente personali: la malcelata invidia di Yokoi per Uemura e le due console a marchio Famicom. Lo stesso Yokoi che, durante la lavorazione di SUPER METROID, non riuscendo a capire cosa spingesse quei ragazzi a lavorare così tanto, fino a tarda notte, chiedeva con ironia se stessero tentando di produrre un’opera d’arte (per quanto sia stato poi entusiasta del gioco, a sviluppo completato). O si è trattata semplicemente di una questione logistica: qualcuno doveva occuparsi dei progetti per Game Boy, altri dei progetti casalinghi. Tante le possibili spiegazioni, uno il risultato: un ruolo sempre più egemonico di EAD, a scapito del team storico, il quale continuò a sviluppare ottimi giochi 8bit in bianco e nero mentre i ragazzi di Miyamoto iniziarono a guardare a incredibili mondi poligonale.
La Nascita della Produzione Esterna
Nello scorso capitolo di Historia abbiamo accennato a cinque aziende che collaboravano strettamente con Nintendo, programmando i giochi per la casa di Kyoto: SRD, TOSE, PAX Softnica, Intelligent Systems e HAL Laboratory. Come abbiamo in parte visto, su Super Famicom e Game Boy Nintendo continuò a collaborare con loro; tuttavia, accanto alla programmazione di giochi EAD o R&D1, le ultime due che abbiamo citato iniziarono a sviluppare giochi più indipendentemente, ma sempre all’interno della macchina produttiva Nintendo: il producer (o co-producer) di questi giochi è quasi sempre un uomo Nintendo, la casa di Kyoto ne cura la pubblicazione, ne finanzia lo sviluppo e ne detiene (in parte o in tutto) il copyright.
Nel 1990, sull’ormai morente Famicom, uscì infatti il primo episodio di Fire Emblem, originale ibrido fra gioco di ruolo e strategico nato dalle menti di Keisuke Terasaki di R&D1 e Shouzou Kaga di Intelligent Systems. I successivi episodi saranno diretti dal solo Kaga, che su Super Famicom porterà la serie a maturità infarcendo la formula di Fire Emblem di intrighi politici, vicende amorose, complesse battaglie e interessanti meccaniche di gameplay.
HAL Laboratory nel 1992 pubblicò invece Hoshi no Kirby (Kirby’s Dream Land) per Game Boy. Nel gioco, un tenero platform in cui il simpatico protagonista può volare e mangiare i nemici, è palpabile l’amore per la semplicità del game designer Masahiro Sakurai e del programmatore e producer Satoru Iwata. Prodotto e supervisionato da EAD, Kirby ottenne una grande popolarità in Giappone e fu presto prodotto un sequel per Famicom, in cui il protagonista ottenne il potere di… rubare i poteri ai nemici. Con Kirby si saldarono le relazioni fra il Presidente Yamauchi, il sempre più influente Miyamoto e Satoru Iwata, che da lì a poco sarebbe divenuto Presidente di HAL Laboratory.
SRD, invece, continuò “semplicemente” a programmare giochi per EAD, mentre TOSE a lavorare per i più disparati progetti (Nintendo e non) come “programmatrice ombra”: la policy dell’azienda era (ed è) essere “invisibile” e i membri di TOSE spesso non risultano neppure nominati nei titoli di coda. Discorso più complesso per PAX: il nome dell’azienda non venne mai publicizzato, ma sviluppò partendo da concept di EAD alcuni giochi per Game Boy come Radar Mission, Wave Race o Donkey Kong (quest’ultimo – il più riuscito – è l’unico diretto da EAD). Nel 1989, inoltre, è PAX a realizzare su Famicom l’ambizioso MOTHER, che vedrà un ottimo sequel su Super Famicom sviluppato da HAL.
Un’altra azienda che entrò nell’orbita di Nintendo fu Rareware, compagnia inglese che durante gli ultimi anni del Super Famicom riportò in vita il mondo di Donkey Kong con la serie Country. Grazie alle sue musiche evocative e la sua (per l’epoca) futuristica grafica in 3D pre-renderizzato, Donkey Kong Country ottenne un grandissimo successo tanto in Nord America, dove permise a Nintendo di vincere la console war contro SEGA, quanto in Giappone.
Nella prima metà degli anni ’90, insomma, alla produzione interna di Nintendo (principalmente di R&D1 e EAD) si accompagna una “produzione esterna”. Nei prossimi capitoli di Nintendo Historia, tuttavia, non tratteremo questo tipo di giochi nel dettaglio, continuando a concentrarci sulle vicissitudini dei team interni, promettendoci in futuro di pubblicare articoli dedicati a Fire Emblem, Kirby, MOTHER, Donkey Kong Country e tutti gli altri grandi giochi prodotti dalla casa di Kyoto, ma non sviluppati dai suoi designer in prima persona.
In questo articolo abbiamo inserito link a tanti siti, sia per invogliare il lettore ad approfondire, sia per ringraziarli (senza di essi questa panoramica sulla storia di Nintendo non sarebbe stata possibile). Un altrettanto grande ringraziamento va ai database Mobygames e The Kyoto Report, che abbiamo consultato per i credits dei giochi, e a Elia per il supporto grafico.