Possono i personaggi dei fumetti sopravvivere ai loro autori? Hergé ad esempio ha espressamente richiesto di non creare nuove storie di Tintin, ma nella maggior parte dei casi la risposta alla domanda è affermativa. Quando nel 1977 René Goscinny muore, è naturale che sia il disegnatore di Asterix, Albert Uderzo, a prendere il testimone dei testi, diventando autore completo. Dopo una serie di primi numeri di buon livello, la qualità della serie più famosa di Francia inizia a calare inesorabilmente fino all’ultimo albo firmato dal solo Uderzo, il pessimo Quando il Cielo gli Cadde sulla Testa.
Finalmente a quel punto Uderzo, ormai ultraottantenne, capisce di non essere più in grado di realizzare le avventure dell’eroe gallico e si mette a cercare dei degni sostituti: ecco quindi che a scrivere le nuove avventure vengono chiamati Jean-Yves Ferri per i testi e Didier Conrad ai disegni. Dopo un discreto primo albo (Asterix e i Pitti), la bontà del nuovo duo trova ulteriore conferma in Asterix e il Papiro di Cesare (2,3 milioni di copie vendute solo in Francia!).
Ma veniamo all’oggetto della nostra recensione: Asterix e la corsa d’Italia (Astérix et la Transitalique), trentasettesimo della serie e primo in cui Asterix e Obelix interagiscono con le varie popolazioni italiche. Come da tradizione, ad un albo ambientato in Armorica si alterna uno come questo ambientato lontano dal villaggio gallico. La trama è semplice: Cesare, sempre desideroso di mostrare la grandezza di Roma (nonché di aumentare il proprio prestigio), organizza una grande corsa di carri da Monza al Vesuvio, a cui finiranno per partecipare ovviamente anche Asterix e Obelix, in compagnia di Idefix.
La storia risulta molto scorrevole. Gli autori concentrano l’attenzione sulle diverse popolazioni italiche (veneti, etruschi, umbri…) intente a promuovere le meraviglie del Belpaese; chi temeva un eccessivo sciovinismo non si può lamentare: la parodia c’è ma è garbata, e tende a sottolineare come alla fine anche i vari popoli italici, come i galli, sono oppressi dalla potenza romana. Non possiamo che sorridere a gag come quella ricorrente delle strade piene di buche, a Pavarotti-taverniere parmigiano, a Berlusconi-venditore di garum al personaggio di Bifidus Lactus, senatore responsabile della viabilità romana accusato di accaparrarsi i fondi pubblici! Ho una predilezione particolare per come viene descritto dai nuovi autori il personaggio di Cesare, altero, megalomane ma alla fine sempre dignitoso e sostanzialmente ammiratore dei due galli.
Difetti? Ce ne sono: Asterix e la Corsa d’Italia, pur costituendo un ottimo esempio di fumetto seriale, non sarà l’albo che vi farà innamorare di Asterix o della bande dessinée. Asterix e Obelix indubbiamente non sono al massimo della forma, e risentono della mancanza dei loro comprimari del villaggio; le poche scazzottate con i romani sono presenti quasi per necessità di mostrare la pozione magica, e non per reali ragioni narrative. Ottimo in ogni caso il lavoro svolto dai traduttori: giocavano in casa, e per noi lettori italiani è indubbiamente un valore aggiunto la parlata in dialetto dei singoli personaggi (elemento mancante nell’originale).
Qual è dunque la lezione di Ferri e Conrad? Nell’approcciarsi a una serie dalla forte impronta autoriale, andare semplicemente a imitare lo stile degli autori originali non può che essere una scelta perdente. Mi vengono in mente due esempi: gli autori Disney che provano a mimare il linguaggio di Rodolfo Cimino, producendo storie tanto banali quanto fantasiose erano invece le originali, oppure i disegni delle nuove storie di Blake et Mortimer, sbiaditi ricalchi di quelli di Edgar P. Jacobs.
I due nuovi autori francesi si sono resi conto di non poter essere all’altezza degli inarrivabili Goscinny e Uderzo. Ferri ha capito di non possedere la forza comica esplosiva di Goscinny, capace di costruire una storia basata solo su giochi di parole: ecco allora la scelta vincente di puntare sullo slapstick, su una comicità più raffinata e sull’inserimento di un buon numero di tematiche d’attualità. Conrad ha capito di non poter raggiungere l’efficacia narrativa e la morbidezza dei disegni di Uderzo: ecco allora adottare uno stile simile ma più caricaturale e nervoso.
Non hanno rinnegato i due grandi maestri, ma hanno saputo distanziarsi per non restare stritolati dal confronto. Una lezione forse banale, ma spesso trascurata in queste epoca produttiva in cui tutto sembra virare verso il revival nostalgico: non rimanere schiavi della tradizione, ma saper innovare partendo da essa.