Sono conscio che con questo pezzo mi attirerò le ire dei fanatici di David Lynch, dei sostenitori dell’arte assoluta e di chissà chi altro, eppure sento il bisogno di scriverlo. Per dirvi che, sebbene nell’arte si possa fare ogni cosa, non è detto che la si debba fare. Che a volte basta andare un po’ a buon senso, senza per forza sacrificare l’aspetto artistico. Che a volte un’opera narrativa è prima di tutto una storia, che merita di essere raccontata per bene. Perché non è vero che vale tutto: ogni tanto il re è nudo ed è bene che qualcuno lo dica. La mia tesi è che Twin Peaks, considerato uno dei massimi cult della serialità televisiva e il testamento artistico di Lynch, sia – nel suo complesso – un’opera disastrata. Un pastrocchio narrativo di proporzioni ciclopiche, i cui difetti sono da imputare a svariati fattori e persone, non ultimo lo stesso Lynch.
Tre decenni fa, Twin Peaks seppe catturare l’attenzione di un pubblico del tutto impreparato alle suggestioni oniriche lynchane e al suo umorismo straniante. Divenne rapidamente un cult, poiché alla gente rimasero in testa alcuni elementi di sicuro impatto: l’indagine su Laura Palmer, le terrificanti sequenze nella Loggia, la simpatia di Cooper, le atmosfere legnose e boscose. Twin Peaks offriva un mucchio di elementi interessanti e memorabili, ma anche tanto pattume. C’erano sottotrame dimenticabili, siparietti umoristici di cattivo gusto e tanti elementi buttati un po’ a caso che sembravano importanti ma non portavano da nessuna parte. Rivisto oggi, in un’epoca in cui la serialità televisiva ha fatto passi da gigante in termini di organicità narrativa, i difetti emergono tutti prepotentemente, oscurando gli innegabili pregi. Ma sì, erano altri tempi, e non era facile proporre narrativa solida in televisione, indipercui ha senso essere indulgenti e perdonare il calo qualitativo nella parentesi in cui Lynch non era presente, la mitologia raccontata in modo incompleto, e persino il finale aperto e ricco di cliffhanger, dovuto alla cancellazione improvvisa. Misteri e sottotrame che Lynch non ha chiuso nemmeno in occasione del film uscito in seguito, che senza alcuna garanzia di un ritorno, si permetteva addirittura di aprire nuove questioni. Insomma, sebbene sia stato considerato un cult per 25 anni, Twin Peaks era un’opera monca, un frustrante incompiuto che chiamava a gran voce un seguito.
Nell’epoca dei revival un seguito è arrivato e Lynch ha avuto l’occasione di portare finalmente avanti la sua opera, ricevendo carta bianca dalla rete, per amor della sua arte. Quello che ha realizzato però non riscatta in alcun modo la vecchia serie, non la completa ma la lascia ancora più incompiuta di prima. Diciotto ore di girato, montate in modo randomico in cui Lynch propone…un’antologia di cortometraggi solo in parte interconnessi. In questo pacchetto è possibile trovare di tutto, materiale buono, mediocre e decisamente inguardabile: diverse sottotrame procedurali, sketch comici, momenti surreali, scenette ambientate dentro e soprattutto fuori Twin Peaks e un gran numero di segmenti onirici e surreali che rappresentano il picco dell’offerta. Detta così può sembrare la manna, la manifestazione più pura di un estro artistico irruente, a cui le regole dello storytelling stanno strette e il cui vero scopo è ridefinire questa forma d’arte. Ma sebbene raccontarsela in questo modo sia affascinante, la realtà è ben diversa.
Cominciamo dall’incompiutezza. Questo revival prende la mitologia dell’originale e la espande, aggiungendo elementi anche molto interessanti, idee valide e meno valide, un episodio otto che è entrato nella leggenda del mezzo televisivo, e così tanta carne al fuoco da non riuscire a cucinarla tutta nell’arco dei suoi diciotto episodi. Il che è un bel po’ grave, trattandosi di un progetto ben definito e non soggetto agli umori della rete. Cosa ancora più grave, nel penultimo episodio si finge di chiudere parte di queste trame salvo poi riaprire tutto nell’ultimo, dipingendo un nuovo scenario destinato a rimanere incompiuto ancora una volta. Certo, si può far fronte alla frustrazione giocando con le teorie, colmando le lacune con l’immaginazione, cercando indizi come il popolo del web si diverte a fare dei tempi di Lost. Solo che qui l’impressione è che non sia possibile in alcun modo ricomporlo il puzzle, perché è stato realizzato apposta in questo modo, incompletabile. Ne ho lette di tutti i colori in proposito: Lynch non dà mai risposte, è giusto che tutto rimanga indefinito proprio come un sogno, spiegare sarebbe rovinare e via dicendo. A me sembrano semplicemente vuote giustificazioni. Sarebbe bello lasciarsi andare all’irrazionalità, spegnendo il cervello, e fruire di questa serie in modo puramente estetico/sensuale, ma la dura verità è che questi non sono semplici corti di Lynch, ma un qualcosa di decisamente più complesso e intrecciato. E’ la serie stessa a non concedere una modalità di fruizione puramente estetica. Perché chiede attenzione, nel suo fingere di disseminare indizi importanti, nel suo raccontare in modo complicato le indagini semplici dell’FBI e della polizia di Twin Peaks. La serie pretende che lo spettatore tenga a mente molte cose, tra cui i traffici del BadCooper, i diversi gruppi di malavitosi, le alleanze, i tradimenti, le parentele tra personaggi che a volte non appaiono nemmeno nella stessa scena. Guardare questo revival con disattenzione e col cervello spento è controproducente, motivo per cui si rimane fregati quando si cerca di prestare attenzione anche alla componente paranormale della “storia”, prendendola sul serio.
Ma poniamo anche che sia lecito. Facciamo finta che sia narrativamente accettabile proporre allo spettatore un tale investimento in termini di tempo e attenzione, calandolo in un labirinto alla Escher, senza costruire anche una via d’uscita. Può esserci arte anche nella truffa, dopotutto. Ecco, se le diciotto ore fossero state un viaggio piacevole, il sapore rimastoci in bocca sarebbe meno amaro. Il reale problema di questo revival è che oltre che nella meta, pecca un bel po’ anche nel viaggio. Tanto per cominciare, ci priva di molti degli elementi che all’epoca resero piacevole seguire Twin Peaks. La maggior parte dell’azione avviene infatti in luoghi lontani dalla romantica cittadina, togliendo alla serie buona parte della sua trasognata atmosfera. Il carismatico protagonista viene trasformato in un vegetale amorfo per tredici delle diciotto ore complessive, e in un deus ex machina nelle rimanenti. E se volessimo giustificare pure queste pecche, ammirando la capacità di Lynch di disattendere le aspettative rifiutando qualsiasi forma di fanservice, è davvero difficile riuscire a giustificare il resto.
Se escludiamo le sequenze oniriche, che per quanto incomprensibili, sono splendide e regalano emozioni molto forti, il restante oscilla dal noioso al gigione. La sottotrama procedurale vede intrecciarsi diverse linee d’indagine per mano di diversi personaggi, ma risulta insipida, inutilmente complicata e poco interessante. Gli sketch comici nel loro voler essere stranianti, risultano irritanti e autocompiaciuti. I numeri musicali che chiudono gli episodi sono piatti e insignificanti. Ci sono inoltre intere sequenze il cui unico scopo è annoiare lo spettatore, testandone la resistenza: Laura Dern che si fuma per intero una sigaretta, l’uomo che spazza a lungo il pavimento del locale, Jacoby che dipinge le pale una ad una, i suoi lunghi e insistiti messaggi promozionali, le scene con Dougie, e si potrebbe andare avanti all’infinito. Se lo scopo è “maltrattare” lo spettatore, per fargli capire la vacuità dell’esistenza di sicuro l’obiettivo è raggiunto, ma resto dell’idea che si potesse far passare questa precisa idea senza rimetterci in fruibilità.
Ed è questo il punto d’arrivo della questione: straniare, andare a mille, rompere le regole e ridefinire la narrativa è possibile e doveroso, specie in quest’epoca di intrattenimento preconfezionato. Ma ce la si può fare anche senza compromettere l’opera e lo spettatore. Nel caso di Twin Peaks la possibilità di dare un senso a quanto fatto tanti anni prima c’era, e non mancavano ampi margini di ampiamento della mitologia, della storia e dei suoi significati. Si poteva fare tutto questo in modo chiaro, in modo criptico e persino in modo piacevole, senza sacrificare nulla della cifra stilistica di Lynch, che avrebbe magari tratto nuova forza e ulteriore credibilità da un Twin Peaks ben costruito. Legittimare ogni tipo di vandalismo narrativo in nome dell’arte libera può essere eccitante, ma è un sentiero pericoloso che può condurre in selve oscure. Personalmente non conserverò un buon ricordo di questa serie “cult”, che ai miei occhi ha ormai perso irrimediabilmente la sua credibilità. L’esperienza Twin Peaks non mi ha realmente regalato qualcosa se non alcune suggestioni oniriche di indubbio valore, che però perdono la loro forza a causa del contesto narrativo fallato che le circonda. Non sono cortometraggi, non sono quadri o creazioni fini a sé stessa, sono parte di una narrazione più ampia che non funziona né ha mai voluto farlo. E proprio per questo non potrò fare a meno di osservare con aria di sufficienza gli sforzi di chi durante la messa in onda si è improvvisato cacciatore di indizi e fautore di astruse teorie, prendendo troppo sul serio alcuni elementi messi a casaccio e facendosi dunque turlupinare. Tanti anni fa Twin Peaks era un semplice moncherino dal potenziale inespresso, oggi lo si può vedere come un moncone infetto e purulento oppure come una spietata e beffarda supercazzola, imbastita da un autore in vena di scherzi. Rimango dell’idea che la narrativa sia una cosa seria e che le storie vadano raccontate da cima a fondo, una regola a cui se vuoi chiamarti narratore non puoi sfuggire, nemmeno se ti chiami David Lynch.