La serie sugli 883 mi ha “violato”.
Sono passati giorni da quando l’ho terminata e ancora ci penso. Snodi, dialoghi, atmosfere, battute continuano a farmi visita in modo insistente.
Mi chiedo perché e un pochino mi rispondo: Max ha caratterizzato il mio percorso, ne sono fan da sempre e lo stimo parecchio. Ma questa risposta non è sufficiente a spiegare un tale effetto. Ne spiega solo un po’, appunto.
La verità è che questa serie mi ha raccontato altro. Cose che non sapevo, e cose che sapevo benissimo perché fanno parte del mio vissuto, ma ad un livello ancora più profondo. Lasciando stare per un attimo gli 883, a me sembra che la loro storia sia servita a mettere in scena qualcosa di ancora più grande, universale e in grado di risuonare dentro la pancia di un sacco di persone.
Questa serie, in soldoni, racconta la gioventù. Non in senso sociologico, non in modo condiscendente, ma da un punto di vista emotivo. Racconta quella roba che ti cresce dentro quando hai vent’anni, le emozioni in carne viva, le potenti illusioni e quel desiderio di condivisione e complicità in grado di proiettarti verso il prossimo, portandoti a stringere amicizie intense. Ma amicizie vere, mica quella noia circostanziale un po’ bolsa che arriva nei decenni successivi. Una condizione emotiva forse patetica ma necessaria per mettere l’essere umano nella condizione di creare arte. Già, l’arte. Quella che ti esce dalla pancia, dal cuore e dalle palle mentre sei lì che sogni con affamata ingenuità. Un elogio dell’immaturità narrato con rara poesia.
Sidney Sibilla ha fatto un lavoro considerevole perché ha saputo mediare questi toni incantati con un umorismo brillante e pungente, satirico il giusto e nemmeno troppo irrispettoso della galleria di persone che popolavano lo showbiz italiano di quei primi anni 90. Certo, alcuni li prende per il culo per benino, vedi Cecchetto, altri invece li incorpora perfettamente nella vicenda umana che sceglie di costruire, come Fiorello e persino la De Filippi. Colpisce molto anche la scelta di giocare con la struttura degli otto capitoli, dando a ciascuna delle fasi del racconto una sua “forma”: ci sono episodi incentrati su uno specifico personaggio, oppure su un evento, in altri si gioca con i flashback e i flashforward saltando avanti e indietro nel tempo per portare avanti il discorso. Ognuno è una sorpresa, ed è tutto davvero curato.
La prova del nove è che al termine di tutto non è stato tanto il personaggio di Max ad avermi conquistato, o meglio non solo. Il mio cuore è andato in frantumi per Silvia Atene, un personaggio-crasi che non è nemmeno esistito davvero ma che trasuda verità da ogni sguardo, ma soprattutto per Mauro Repetto. Il “ballerino” che durante la mia adolescenza era stato solo un nome, uno che se n’era andato. E che invece adesso è un simbolo. Il simbolo di quel tipo di amicizia “progettuale”, fatta di follia, lealtà e appartenenza, il cui carburante è l’entusiasmo. Trovate il modo di guardare a voi stessi come Repetto guardava al talento di Max e difficilmente fallirete nella vita.
La seconda stagione? La aspetto e la temo. La vita mi ha già fatto diversi spoiler su cosa succede dopo quel momento magico, e non sono sicuro di volere che qualcuno venga a raccontarmelo. Ma nel frattempo, concentriamoci su quella foto con Max e Mauro che si bevono la birra scura. Forse l’incanto può sopravvivere, se si è belle persone.