Le serie Pixar

Con il lancio di Disney+ abbiamo visto per la prima volta la Pixar (e ovviamente anche i WDAS) cimentarsi nel formato serie tv. All’inizio furono I Perché di Forky e Dug Days, che però erano del tutto indistinguibili da compilation di cortometraggi. Con Cars on the Road era per la prima volta affiorata una vaga orizzontalità: Saetta e Cricchetto con un viaggio a tappe in giro per gli USA. Si trattava però di materiale sempre molto derivativo e in un certo senso simile ai vecchi Cars Toon.

Con Dream Production, anch’esso derivativo, ma ambizioso e di respiro, è stato però fatto un passo in una diversa direzione. Si tratta di un delizioso spinoffino in quattro parti di Inside Out, che ha esplorato una sfaccettatura inedita di un argomento di per sé inesauribile. Non ho amato granché la formula narrativa da reality, e avrei qualcosa da dire anche su alcune scelte di design, ma per il resto ho visto sugna vera. Metafore, parallelismi, satira, riflessioni sulla psiche E sul mondo dell’entertainment, fino ad arrivare ad un climax narrativo che mette in scena qualcosa di veramente affascinante: il sogno lucido.

Ma se Dream aveva un po’ il sapore di un film tv a pezzettini, con Win or Lose, prima serie Pixar del tutto originale, è andata anche meglio. Sugna doppia, tripla, quadrupla, in quello che – finalmente – è un vero e proprio take seriale all’animazione Pixar. Otto episodi dedicati ad altrettanti punti di vista che ci portano a rivivere in modo ossessivo la settimana che precede un campionato scolastico di softball. Ovviamente è un pretesto per mettere in campo uno spaccato di umanità niente male: ragazzi, ragazze, professori, allenatori, genitori, ognuno di loro contraddistinto da un “gimmick visivo” che come in una realtà aumentata ne espone le nevrosi. E questa cosa è fatta benissimo, con un approccio credibile, sul pezzo… che però non suona mai artefatto ma spontaneo e guizzoso. Sul piano strutturale si nota inoltre un lavoro di cesello notevole: le otto storie sono intrecciate, e man mano che si sommano i punti di vista, il puzzle si completa in modo imprevedibile, puntando verso un climax comune che collega tutti i personaggi e rimette in scena i diversi “gimmick”. Poi vabbè, ci sono dei deja vu piacevoli per quelli della mia generazione: con questa cosa delle centricità sembra di essere tornati ai tempi di Lost, mentre l’idea di ripercorrere di continuo il breve lasso temporale che porta a un evento sembra di star rigiocando a The Legend of Zelda: Majora’s Mask. E’ un’opera che ha il sapore della vecchia policy: intimista, psicologica, inclusiva e… pupazzina. I personaggi sono infatti delle figurette semplici semplici, efficacissime ma per forza di cose debitrici di alcune scelte di design che hanno spopolato negli ultimi anni e che avevamo visto nei Pixar pandemici. Non certo una rivoluzione grafica, ma come per Dream Production, si suppone sia la quadra trovata per poter rendere percorribile la produzione di CGI seriale ad alto budget.

Tuttavia, dato che questo modello produttivo è stato già mandato in soffitta, queste due serie “serie”… saranno anche le ultime. Del resto era troppo bello per durare: animazione televisiva con valori produttivi cinematografici? Un ossimoro qualitativo già in partenza. Prima o poi la coperta troppo corta ci avrebbe riportati alla realtà, cosa che è successa negli ultimi giorni, quando hanno annunciato che sarà Disney Television a sobbarcarsi di nuovo l’onere di mungere le IP cinematografiche per farci serie tv. Pazienza, nella storia di uno studio si aprono e chiudono diverse fasi, e direi che questi in questi ultimi cinque anni ci siamo abbuffati anche troppo.