Gli Anelli del Potere

Con la fine della prima stagione degli Anelli del Potere posso tranquillamente affermare di aver assistito a un vero e proprio incanto, come non me ne capitavano da molto tempo a questa parte. Veniamo da settimane molto ricche, in cui sembra che tutti i principali franchise dell’immaginario collettivo si siano dati appuntamento in diversi giorni della settimana per rinfacciarci l’epoca di abbondanza in cui siamo immersi. Un’abbondanza quasi molesta, assuefacente, un tempo impensabile. Eppure, pur considerando tutto questo, Gli Anelli del Potere si è distinto subito come il piatto più ricco in assoluto, quello che ha generato in me la maggior attenzione, la più grande attesa e la più intensa gioia.

Come mai tanta gioia? Per diverse ragioni. Prima di tutto perché ritengo che ci fossero mille modi in cui avrebbero potuto sbagliare questo progetto e un solo modo per farlo “giusto”, e da quel che ho potuto vedere è la strada che hanno imboccato.

Tanto per cominciare gli showrunner erano perfettamente consapevoli di essere tra l’incudine e il martello, di non aver appieno né i diritti letterari né quelli cinematografici per lavorare in tranquillità. E malgrado questo hanno lavorato negli spazi bianchi, nelle aree grige e sono riusciti a creare un solido ponte estetico e stilistico fra Tolkien e Jackson, che tenesse conto di tutto. Un lavoro di un sincretismo unico. E in mezzo al ponte cosa c’è? La narrazione seriale moderna, quella fatta di misteri e colpi di scena, concetti che si ritenevano avulsi da questo mondo ormai già scritto. A torto, del resto. Perché chiunque abbia letto e amato l’opera di Tolkien ha percepito quel senso di vuoto all’altezza della Seconda Era, raccontataci solo attraverso due racconti del Silmarillion che avevano più il sapore di un soggetto, che di una narrazione completa. E quindi c’era spazio, c’era margine di manovra. Ma soprattutto, in un’epoca in cui si cerca di proseguire ogni franchise con retroscena che nessuno realmente ha chiesto, mettersi a colmare un vuoto simile, portare sullo schermo eventi solo accennati ma su cui tutti hanno fantasticato pareva quasi doveroso.

E l’hanno fatto bene. Anzi, l’hanno fatto “bello”.

Partiamo dall’impianto visivo. Non è solo una questione di budget, soldoni spesi e gara a chi ce l’ha più grosso. Quello che hanno fatto con questa serie è adottare una direzione artistica che orientasse la sensibilità dello spettatore verso le cose belle, verso l’alto. Gli Anelli del Potere è… lirico. Grande in ogni suo dettaglio, epico, rasserenante, virtuoso e magniloquente. Non è solo una questione di luci di scena, di CGI, di qualità del set, tutti elementi ovviamente di livello altissimo di per sé. Qui c’è tutto un lavoro fatto sulla pura composizione dell’immagine, sulla disposizione degli elementi sulla scena, sulla scelta di inquadrature inconsuete e comunicative. E poi c’è il colore. Non so chi sia stato a mettere mano al girato, né mi intendo di color correction e altri tecnicismi, ma basta vedere alcune sequenze del penultimo episodio con la passeggiata nella neonata Mordor per rendersi conto che è come se qualcuno avesse ridipinto la realtà. Sono quadri, non è semplice live action. L’impianto estetico non è solo un orpello, ma viene inglobato fra gli strumenti della narrazione stessa, per valorizzarla.

Vogliamo parlare della musica? Al netto del bellissimo tema principale di Howard Shore, che accompagna le evocative immagini della sigla, quanto fatto da Bear McCreary è assolutamente straordinario. Una partitura che abbraccia tutti gli episodi, costruendo un tema molto preciso per ognuno degli scenari e dei personaggi. Alcuni brani rimangono in testa al primo ascolto, con altri si fidelizza nel tempo. Sono fra quelli che si sono bagnati nel ritrovarsi un vero e proprio brano cantato, This Wandering Day, nella partitura, un vero e proprio capolavoro sia sul fronte musicale che registico per le immagini dolci e delicate che lo accompagnano: il montaggio con la mappa che illustra il percorso degli Hobbit, le inquadrature da lontano dello Straniero dritto in piedi nella notte. This Wandering Day è probabilmente il momento chiave in cui la serie svela allo spettatore la sua vera natura e le sue “istruzioni per l’uso”. Mette in chiaro le cose e ti dice come vada intesa.

Il casting poi è eccellente, con molti personaggi che mi sono rimasti dentro. Ho amato questa Galadriel “acerba”, schizzata e profondamente Noldor. Un personaggio strano e destabilizzante già dalla versione della Blanchett, ma che qui assume una dimensione nuova. Su di lei è stato costruito molto, in modo anche bizzarro ma sempre ponendosi le giuste domande. Vederla combattere e volteggiare come un elfo pazzo e dispettoso, con le note di violino a sottolinearne i movimenti, vederla sbroccare del tutto a caso, prendere decisioni assolute e fanatiche, sentirla parlare come una persona che ha perso il contatto con la realtà racconta del Silmarillion molto più di quello che i diritti in mano ad Amazon sembrano concedere. Incredibili Elrond e Durin, due attori con una chimica pazzesca e il ritorno di quelle interazioni sornione che avevo amato nello Hobbit. Eccellenti sotto ogni punto di vista i pelopiedi, dai costumi ai dialoghi, probabilmente i migliori della serie. D’impatto e inquietantissima la sacerdotessa che sembra Achille Lauro. Colpo da maestro l’inserimento di un personaggio “grigio” come Adar e l’umanizzazione dell’etnia Uruk. E un plauso anche per l’adattamento italiano, a cui al giorno d’oggi si tende a fare poco caso, ma che qui ha contribuito a restituire quel gusto per il linguaggio ricercato o bizzarro a cui il linguista Tolkien si era dedicato tanto.

Ecco, e Tolkien c’è? Eccome se c’è. Quanto se ne vuole. La serie ha un piglio decisamente contemplativo, assorto, pone l’accento su quella tranquillità e gioia di vivere su cui il professore aveva tanto insistito in vita. Sono stati molto attenti a catturarne lo spirito, l’amore per razze e linguaggi e a restituircene intatta una sua proiezione attendibile. Dico proiezione perché chiaramente nessuno potrà mai davvero sapere cosa gli sarebbe piaciuto, che strumenti avrebbe potuto avere per giudicare il risultato né che forma avrebbe preso la Seconda Era se avesse avuto tempo e modo di poterla narrare al dettaglio come fatto per la Terza. Quanto visto però propone temi e problematiche a lui care, filtrate chiaramente attraverso una sensibilità più moderna. Problematizzare gli orchi forse non sarebbe passato nella testa di Tolkien, mentre la metafora della nave che sta a galla perché guarda in alto mentre il sasso affonda perché guarda in basso è assolutamente da lui. Ma totalmente, a giudicare da quante pagine ha impiegato per sottolineare l’errore di Sauron e Sméagol nel torcere ossessivamente il loro sguardo verso l’effimero, finendo per essere trascinati in basso verso il putridume.

Infine la ciccia. Il colpo di genio della serie è costruire come mistero cose che nessuno aveva mai vissuto come tali all’epoca. Scoprire che tutto conduce alla nascita della Mordor che conosciamo rappresenta una delle cose più indovinate in assoluto, come anche gettare nuova luce sull’origine degli orchi. E’ il mistero dello Straniero e dell’identità di Sauron tuttavia ad aver impattato di più. Ritrovarsi ad attendere con gli amici queste rivelazioni come ai tempi dei misteri di Lost, e rendersi conto che lo si sta facendo con la Terra di Mezzo non ha prezzo. E il risultato a cui si arriva, che direi essere molto logico, mi è piaciuto. Non pensavo che avremmo visto direttamente la creazione dei tre anelli già nella prima stagione, e invece così è stato. Una storia che persino in Tolkien pareva confusa, con gli Elfi che da un lato si prestano al progetto di Sauron, dall’altro no, senza che si capisca in che rapporti effettivi fossero. Aver costruito su tutto questo un mistero dimostra che le “stranezze” letterarie relative alla Seconda Era potessero non essere limitazioni ma carburante creativo.

Aspetterò con ansia la seconda stagione, che pare non arriverà presto e sia prevista per il 2024. Fra due anni, quindi. Ed è giusto così, serie come questa sono fatte per essere attese, sublimate, interiorizzate, riprese in esame nel tempo. E’ bene che si mantenga questa gravitas, questa aura di evento e che non vada a finire come con le serie Disney+ che col loro ritmo incessante finiscono per essere date per scontate. Qui c’è ben poco da dare per scontato, qui c’è bellezza vera e la bellezza vera va protetta a ogni costo. Altrimenti si finisce ad andare giù, come il sasso.