L’attesa dell’apocalisse è essa stessa l’apocalisse

Venire a termini con il termine del Trono di spade.

SPOILER

In questo articolo sono spiattellati senza scrupoli i dettagli del Trono di spade fino all’episodio 8×03 del 29 aprile 2019.

Il toto-morti

I peggiori difetti della ottava e ultima stagione del Trono di spade sorgono dalla consapevolezza di almeno tre delle condizioni che la affliggono: che sia l’ultima stagione; la riduzione del numero di episodi che la compongono; l’incontestabile popolarità della serie. Nozioni apparentemente innocue eppure alla base di ogni rituale apotropaico prima di ogni nuova sigla: «È l’ultima stagione: rimarranno solo i protagonisti»; «Quel personaggio ha terminato il suo arco narrativo, quindi non lo vedremo piú»; «Ci hanno fatto affezionare a quelle dinamiche, quindi ora le rivoluzioneranno»; «Non può finire bene, sennò il pubblico sarà deluso».

Una verità difficile da ignorare: a questo punto, date le suddette condizioni, è quasi impossibile per i creatori della serie concepire colpi di scena che non sembrino soprattutto il tradimento dell’evoluzione dei personaggi o che non conducano a un finale aperto, senza la speranza di vederlo risolto nel futuro imminente.

La comunità di seguaci del Trono ha trovato una perversa soddisfazione nell’accettazione di questo dolore e, nei 600 giorni trascorsi dalla fine della settima stagione, si sono rincorsi i pronostici piú funesti, sempre piú eclatanti nei toni ma allo stesso tempo inappellabilmente monotoni: il toto-morti.

È un appiattimento della gamma di emozioni di cui Il trono di spade è stato capace in questi otto anni che mi rovina l’ideale di visione comunitaria sperimentata invece per altre pietre miliari della tv e del inema, quando anche quelle arrivavano al gran finale. D’altro canto se questo approccio è cosí diffuso, probabilmente la responsabilità è anche di chi ha realizzato la serie, che senza compromettere la qualità dei singoli episodi ha tirato comunque in barca i remi dell’audacia proprio all’ultimo miglio.

L’insostenibile leggerezza dell’apocalisse

La colpa dei creatori del Trono di spade è in realtà una colpa generazionale (vedi Avengers e suoi epigoni) a cui forse proprio l’autore dell’opera letteraria originale George R.R. Martin sta cercando di sottrarsi con l’ostinata cesellatura dei suoi prossimi due romanzi: in una condizione analoga a quella del telefilm, sono gli ultimi e sono attesissimi (ma vanteranno tante pagine), eppure per il loro formato ci permettono pronostici meno monotoni del toto-morti. La cosa è anche paradossale se ricordiamo che Martin finora si era guadagnato la nomea di cinico sterminatore dei suoi eroi.

Forse il grosso del pubblico si è accontentato di questa nomea, che il telefilm ha assecondato, come se i famigerati “episodi nove” (con i colpi di scena più cruenti, i culmini delle stagioni iniziali) riuscissero a cancellare dalla memoria la stratificazione di esperienze e dettagli o, peggio, servissero a ridurre quella stratificazione al ruolo di precursore degli scontri fisici.

Questa inversione causale fra viaggio e destinazione è il disarmante frainteso del cinema di intrattenimento di questa epoca per cui tutto in una storia (specie se seriale) deve essere funzionale a alzare la posta in gioco. Ma se tutte le minacce che si susseguono sono apocalittiche nessuna lo è stata davvero, e questa truffa la paghiamo: le storie diventano droghe, sostanze stupefacenti prive di nutrimento.

Il tradimento

Il secondo episodio dell’ottava stagione, “A Knight of the Seven Kingdoms” serve da concentratore di quasi tutte le sottotrame passate, quando tutti i protagonisti (esclusi gli psicopatici Cersei Lannister e Euron Greyjoy, e il mercenario Bronn, un po’ confuso) sono riuniti a Grande Inverno per prepararsi a affrontare l’esercito di non-morti del Re della Notte. Lo scontro è riservato all’episodio successivo, mentre in questo il cast sostanzialmente sta a girarsi i pollici.

La verità è che per gran parte del tempo nelle stagioni passate i nostri beniamini hanno fatto proprio questo: girarsi i pollici, e la cosa ci deliziava. In questa stagione, invece, un episodio isolato dedicato all’approfondimento dei personaggi rimane un souvenir di un tempo migliore che non tornerà.

Sentire Tyrion Lannister parlare di andare a puttane dopo tre stagioni asservito alla castità e alla pompa magna della Storia fa piú male che altro. Allo stesso modo la cerimonia di cavalierato, probabilmente finta, accondiscendente e rassegnata, di Brienne di Tarth sembra la conclusione forzata di un corteggiamento ancora acerbo con Jamie Lannister, entrambi affrettati a dimostrare di non essere piú quello che erano ma per niente pronti a affrontarne le conseguenze (per tacere della spada di Damocle di una imminente morte a deresponsabilizzare e inaridire tanto sentimento). L’epopea di Sam Tarly e Gilly, che hanno viaggiato più di tutti e conoscono più di tutti, è ridotta a una comparsata. Evito di continuare, ma è con questi personaggi che abbiamo pagato l’assuefazione all’apocalisse.

Il riscatto

E poi arriva “The Long Night“, il terzo episodio dell’ottava stagione, che racconta la battaglia campale che ha tanto preoccupato i nostri eroi per otto anni. Piú loro che me, a essere sincero: se questa battaglia non si fosse mai tenuta non avrebbe lasciato buchi da colmare. Gli Estranei sono creature mistiche: perché farne soltanto un’esca? Alla speranza di un esito di minore clangore ho rinunciato però già da “Hardhome”, l’ottavo episodio della quinta stagione, quando fu chiaro che la storia puntava a concludersi in uno scontro violento e meno che magico. La serie avrebbe pagato il suo tributo alla forza bruta, e io non ho potuto farci niente.

Questa prospettiva è la responsabile dei diffusi timori di carneficine. La carneficina alla fine c’è stata: l’esercito piú grosso della storia si è praticamente polverizzato, ma a dispetto dei toto-morti dell’ultim’ora il bilancio dei caduti fra i nostri beniamini è stato molto piú leggero.

Eddison Tollett
Beric Dondarrion
Lyanna Mormont
Jorah Mormont
Theon Greyjoy
Melisandre

Ai caduti della Lunga Notte.

Muoiono tre personaggi minori, evidenti palle al piede sin dalla loro prima apparizione. Sono invece gli altri tre i caduti piú rilevanti: Jorah e Theon avrebbero meritato un ruolo e una focalizzazione nell’economia dell’episodio migliori, onore andato invece a Melisandre: la polvere si posa, l’alba di una nuova speranza illumina la terra, e i ricordi di una vita ben spesa quanto gli imperdonabili sacrifici si intuiscono nell’essenzialità del silenzio e di un simbolo: poi, titoli di coda.

Ognuno dei tanti protagonisti del Trono di spade meriterebbe un commiato di questo tenore, per i quali però sarebbero servite altrettante stagioni. Se uniamo questo limite al “tradimento” di cui dicevo sopra, ridursi al toto-morti significa aver dimenticato le facce dei propri padri (cit.).

Sono contento che, almeno per ora e per quanto possibile, i creatori del programma abbiano tenuto fede al principio del “giusto addio” e non abbiano saturato di morti illustri questa prima metà della stagione. Non so se ne siano consapevoli ma appare come una sfida (tanto attesa) alla assuefazione all’apocalisse e forse una promessa di maggiore impegno, ora che il tempo è agli sgoccioli e il rischio di tradire ancora è maggiore.

Riconciliazione

Ramin Djawadi, l’autore della musica di tutta la serie, ha composto un nuovo brano monstre dominato dal pianoforte (dopo quello per la distruzione del Tempio di Baelor nel finale della sesta stagione, “Light of the Seven“) per la sequenza madre dell’episodio, ovvero i 9 minuti in cui gli Estranei fanno breccia a Grande Inverno potendo cosí esercitare il loro potere di resurrezione dei morti e vincere definitivamente la guerra. Ma gli eventi prenderanno una piega diversa grazie a Arya Stark, la Night Kingslayer.

Il nuovo brano si intitola “The Night King“: