E’ mio costume aspettare la fine di una serie prima di esprimermi a riguardo. La macchina dell’hype che ci porta a sminuzzare, settimana dopo settimana, ogni fenomeno, fino a farlo a brandelli sui social, riducendo ogni suo dettaglio al meme settimanale è una cosa molto brutta che penso dovremo allenarci ad evitare.
Poi però ti imbatti in qualcosa come Gli Anelli del Potere e non c’è attesa, non c’è prospettiva che tenga. Subisci una folgorazione e parlarne immediatamente diventa necessario.
Faccio una premessa: ci è voluto un po’, nei mesi precedenti per abituarmi all’idea di questa produzione. All’inizio non si capiva cosa fosse, se un remake di LOTR oppure no. Poi si è capito che rappresentava un’espansione dei fatti della Seconda Era, che Tolkien aveva solo accennato nel Silmarillion. Infine si è tremato forte quando è saltato fuori che Amazon non aveva i diritti del Silmarillion, che avrebbe dovuto basarsi “solo” sul pregresso narrato nelle appendici del Signore degli Anelli, e che la produzione non era nemmeno collegata all’esalogia di Peter Jackson, che rimaneva in mano a Warner. Non ero positivo.
Lo sono diventato dopo aver letto una bella intervista agli showrunner. Schietti, onesti e consci di tutto il problema. Sapevano di dover fare slalom tra mille paletti, a malgrado questo erano intenzionati ad aggirare gli ostacoli. Dalle appendici avrebbero tratto tutti i fatti utili a surrogare il Silmarillion e da un punto di vista produttivo l’intenzione era quella di rifarsi in tutto e per tutto ai film Warner, sia pur implicitamente, ingaggiando nomi come John Howe e Howard Shore. Avrebbero potuto essere parziali, prestare il fianco ad una corrente piuttosto che un’altra e invece hanno voluto ragionare in modo ampio e a prova di problemi. Venerdì mi sono seduto sul divano aspettandomi quindi un prodotto rispettoso e congruente, di Tolkien, di Jackson, e soprattutto del pubblico che negli anni ha amato la Terra di Mezzo sia su carta che su celluloide. Mi sarei accontentato di un compromesso ben riuscito.
Quello che non potevo prevedere sarebbe stata la bellezza.
E per bellezza intendo la bellezza vera, il desiderio di far esperire allo spettatore uno spettacolo totale, un trionfo estetico, poetico e magniloquente. Che sia la serie tv con più budget nella storia si sente e si vede, ma non è necessariamente il soldo a fare la bellezza, a volte è semplicemente il gusto e la sensibilità dell’artista, che quando comunica a dovere con la sensibilità dello spettatore crea quel ponte ideale che chiamiamo espressione, ed è il reale scopo dell’arte.
Non c’è un fotogramma poco ricercato, ogni dettaglio della messinscena mira a creare l’illusione di un trasognato quadro in movimento. C’è un lavoro sul colore, sulla luce, sulla disposizione degli elementi in scena che è quasi raro nel live action. Le inquadrature e i movimenti della telecamera non sono mai banali, comunicano tanto, tantissimo. L’impressione è che non ci sia niente di standardizzato. Lo stesso vale per il tono. Si passa dall’umorismo garbato delle scene con i pelopiedi, ad un registro aulico nelle interazioni tra elfi. Il linguaggio è anche più ricercato, e l’adattamento italiano utilizza termini desueti che restituiscono il sapore di quei tempi antichi.
E sebbene le dinamiche siano per forza inedite, e sia stato detto che a livello di datazioni hanno dovuto per forza di cose concentrare gli eventi in un periodo di tempo più ristretto, Tolkien non è affatto assente. C’è eccome. Si sente nei discorsi, si sente nelle tematiche e si sente nelle parole specifiche: il verme, il putridume, il guardare in alto anziché farsi attrarre morbosamente da ciò che giace in basso è tutto materiale che se si è letto Tolkien per davvero farà suonare non pochi campanellini.
Siamo di fronte a qualcosa di epocale, con cui ci dovremo misurare in futuro. Non solo dal punto di vista artistico e tecnico ma proprio come concezione: fare le cose in grande, pensando ad ogni aspetto del problema. E poi diciamocelo, in un’epoca in cui ogni franchise soffre di troppismo e in cui sembra che sia necessario ampliare anche gli eventi meno rilevanti di ogni storia, il fatto che la Terra di Mezzo avesse praticamente un’Era vergine era una cosa che chiamava vendetta.
Oggi vogliamo finalmente tornare a onorare le antiche tradizioni pikappiche. Dopotutto Il Ragno d’Oro ci è piaciuto, ed è stato un po’ come tornare a casa dopo tanto tempo. E così rieccoci di nuovo: autori e lettori, passioni e ossessioni, risposte ironiche e tecno-bubbole improvvisate sul momento, segreti e misteri svelati a grappoli. Insomma, è il momento di rispolverare il caro vecchio Botta e Risposta, da tanto, troppo tempo rimasto in letargo.
Abbiamo raccolto un po’ di domande captate qua e là fra gli utenti del Sollazzo nella nostra rete Telegram e le abbiamo proposte a Lui, Colui che tesse la tela del Ragno d’Oro e le trame del pikappero dal 1996, il Soave Alessandro Sisti.
Il risultato, come sempre, è da leccarsi i baffi. Buona lettura!
Sollazzo: Con “La Danza del Ragno d’Oro” viene introdotta una nuova minaccia che si può inserire nel filone “mistico” aperto proprio da te 22 anni fa in PKNA #38, “Nella Nebbia”, che si sa peraltro essere una delle trame da te proposte fin dal principio. Il filo tra l’avventura del 2000 e quella di oggi sembra tessuto anche dalla presenza sul finale dei monaci di Dhasam-Bul; dello stregone Ahrimadz invece non c’è traccia (finora…?). Che ci puoi dire della Soave Signora e dei suoi accoliti, senza spoilerarci nulla? Chi sono, da dove vengono? C’entrano qualcosa le potenti creature extra-dimensionali che cercavano di sconfinare in “Nella Nebbia”? E poi, si tratta di un’idea nata già ai tempi di PKNA come possibile seguito di PKNA #38, o più recentemente?
Alessandro:Già, già, proprio così! Eh, non c’è più la mezza stagione… Sto tergiversando, perché della Soave Signora e del suo corpo di ballo non si può parlare senza svelare più del dovuto. Colpa mia, perché finora non ne ho detto praticamente niente e dunque qualsiasi cosa è già troppo. Vediamo quanto riesco ad aggiungere senza rovinarvi il piacere dell’attesa.
Personalmente aspetterei ad ascrivere il Ragno d’Oro al filone mistico. Il povero Ahrimadz (ho sempre pensato che avesse un po’ di ragione) la troverebbe un’affiliazione assolutamente indebita. Comunque lui non c’entra con gli allegri danzatori, anche se non è escluso che la sua strada e quella della Signora finiscano per incrociarsi. Sono troppo vago? È inevitabile, dato che appunto per portare avanti questa trama sto cercando di ridefinire il concetto di realtà e tutti i grandi quesiti esistenziali che comporta. Per citare Woody Allen “Chi siamo? Dove andiamo? Chi ha ordinato le scaloppine”? L’unico fatto assodato è che la nuova minaccia non risale ai tempi di PKNA ed è nata appositamente per l’attuale stagione pikappica. È uno spunto che avevo in mente e quando i PKers, nel corso di svariate dirette e interviste (l’ho chiesto e magari c’è qualcuno che si ricorda d’avermi risposto), hanno dichiarato di desiderare storie che pur senza abbandonare il canone, proponessero delle novità, mi sono sentito autorizzato a svilupparlo.
Sollazzo: Xadhoom e il nuovo “status quo”. La xerbiana mutante è ora sulla Terra, alla ricerca di un po’ di conforto dopo aver perso il suo popolo per la seconda volta. Questo ci dà l’opportunità di conoscerne nuovi aspetti (wow, i “fiumi di energia”!) e di vederla nell’inedito ruolo di paladina riconosciuta del pianeta accanto a PK, non potendo ora concentrare la sua vendetta su nessuno. Cosa ci dici di questa “nuova” Xadhoom? Cosa le prospetta il futuro? Quali altri lati di lei emergeranno? E quanto ancora lei, e noi, dovremo attendere prima di sapere cosa diamine sia successo agli xerbiani? Dici che ce la facciamo questa volta ad arrivare finalmente ad un bel traguardo per la sua storyline, in modo da non depotenziare in alcun modo il lirismo di “Sotto un Nuovo Sole”? (Ti prego, dicci di sì…)
Alessandro:Iniziamo dalla domanda sugli aspetti inediti dell’indole di Occhibelli: in effetti ciò che dovremmo chiederci è se averla per vicina di casa ci aiuterà a capirla meglio. Anche se la conosciamo da un pezzo, finora le contingenze ci hanno mostrato solo alcuni lati della sua personalità e giudicare una persona da come fa alla griglia i suoi nemici o da come porta giù la spazzatura non giunge per forza agli stessi risultati! La “nuova” Xadhoom in realtà è quella di sempre, incredibilmente intelligente e gloriosamente potente, ma soprattutto (ci avevate fatto caso?) spaventosamente emotiva. Tutto ciò che fa è dominato dalla passione, l’abbiamo vista odiare (gli evroniani) al limite della follia, per poi compiere un sacrificio più che estremo per amore della sua gente e l’ultima svolta della situazione l’ha lasciata col morale sotto i tacchi. Dunque non c’è dubbio che ovunque il futuro la porterà, sarà sull’onda delle sue incontenibili emozioni.
Arriveremo finalmente a un bel traguardo per la sua storyline? Perché “finalmente”? Siete ansiosi di togliervela dai piedi? In ogni caso c’è un destino che l’attende e stavolta sì, è qualcosa che, insieme alla sua resurrezione, avevo già in mente mentre sceneggiavo “Sotto un nuovo sole”. Se sarà degno di quella – temporanea e illusoria – conclusione, sarete voi a dirlo. Per parte mia credo che sia così che la sua parabola debba chiudersi e almeno nella mia visione, non sarà un epilogo in tono minore. Tanto che mi chiedo se mi sarà permesso narrarlo… Altrimenti ve lo racconterò sottovoce davanti a un aperitivo.
Che fine hanno fatto gli xerbiani? Allarme spoiler: mi hanno mandato una cartolina da Bogliasco.
Sollazzo: Ora che l’esistenza di Xadhoom è di dominio pubblico, qualche nodo di PKNA potrebbe venire al pettine. Come reagirà Mary Ann Flagstarr, che ha già avuto a che fare con lei? E il generale Westcock? E soprattutto, Angus Fangus ha riconosciuto in lei la “dottoressa Xado” che invitò ad una cena galante – per quanto subito bruscamente interrotta – in PKNA #28 “Metamorfosi”? Magari stavolta riusciranno ad arrivare al dessert? O si limiteranno al bicarbonato?
Alessandro:Qui siamo ai fili pendenti, che però non sempre sono stato io a lasciare in sospeso. Di certo ne riprenderò alcuni, ma rispetto a quelli elencati penso ce ne siano di più pressanti, poiché possono trasformarsi in altrettanti problemi per il papero mascherato. I rapporti fra Xadhoom e chi già l’ha incontrata sono parte della realtà di fondo della saga, nondimeno per l’avvenire vorrei che le imprese di Pikappa – per inciso, a me è sempre piaciuto scriverlo così – non si riducessero a un continuo guardarsi indietro. Il nostro eroe ha un grande futuro dietro le spalle (citando stavolta Vittorio Gassman), ma davanti ce n’è di più. Fino al 23° secolo e oltre.
Sollazzo: Dunque, gli xerbiani sono tornati in pista con una sottotrama a loro dedicata. Uno xerbiano particolarmente sfortunato è Xarion, superstite apparso nello Speciale 99 “La Fine del Mondo” e subito scomparso in un viaggio verso una nave di Xerba in orbita attorno a Saturno per recuperare dati sui punti deboli della flotta evroniana. Sarà stato catturato dai reduci di Evron? Oppure si è riunito “offscreen” con il suo popolo liberato dopo la fine della Trilogia, condividendone il destino? O magari, a sorpresa, il suo restare lontano dal suo popolo gli ha permesso di scampare a qualunque misterioso fato abbia colpito gli altri xerbiani, al punto che potrebbe rivelarsi fondamentale in una storia futura per aiutare Xadhoom a risolvere l’enigma?
Alessandro:V. la risposta precedente. Comunque (allarme spoiler bis) Xarion mi ha mandato una cartolina da Lignano Sabbiadoro, con scritto “Sai mica dove sono tutti gli altri”?
Sollazzo: Dunia Voyda. Imprenditrice visionaria e nuovo comprimario, sembra destinata a tornare. Un Everett Ducklair al femminile, viene definita. Ci dici di più su questo personaggio e la sua genesi? Che dobbiamo aspettarci da lei? Che costruisca armi contro la sua volontà e abbia figli ibernati in cantina?
Alessandro:No, in cantina Dunia iberna i fidanzati che non le piacciono più (quindi occhio, se pensavate di chiederle d’uscire) e va anche detto che quando ho creato Everett, ignoravo che fosse un alieno. È stata una sorpresa, perché personalmente ritengo che nelle pieghe e nelle contraddizioni dell’animo dei paperi del nostro pianeta – nonché degli umani e di qualsiasi altra forma di vita più o meno intelligente – ci sia materiale narrativo a sufficienza. Dunia Voyda nasce dalla necessità d’avere in scena qualcuno curioso dei segreti di Pikappa, in grado di capirli e con una volontà indipendente che può generare guai. È destinata a tornare e a restare, perché della sua personalità ancora non abbiamo visto nulla. E come per tutti i protagonisti del mondo pikappico, si tratta d’una personalità che sotto alle apparenze ha parecchi altri strati.
Sollazzo: Piccola deviazione dal Ragno d’Oro. Parliamo un attimo di Zona Franca, pubblicata sul Topo ad ottobre 2021. In questa storia ritroviamo, dopo 21 anni, Mary Ann Flagstarr, che nel frattempo ha fatto carriera ed è diventata Capitano. Forse è stata promossa anche per aver meritoriamente compiuto con successo la famigerata missione segreta di cui parlava l’agente PBI Malice Sturling in PK2 #5, magari addirittura in molto meno tempo dei 15 anni di missione originariamente previsti? Che le è successo nei restanti anni? La rivedremo incrociare la strada del vecchio mantello tarlato, magari appunto considerando il ritorno a sorpresa di Xadhoom?
Alessandro:Il territorio del capitano Flagstarr si sovrappone (in parte, lei nello spazio non ha giurisdizione) a quello di Pikappa, pertanto è più che probabile che tornino a incontrarsi. Perché è stata promossa? Perché se lo meritava, non siete d’accordo? È in gamba, tanto da risolvere molto più in fretta del previsto una missione teoricamente quindicennale. Quanto a quello che le è successo… be’, di tutto! Stiamo parlando di un’agente speciale della PBI e su personaggi del genere si scrivono intere serie, per cui proporrò al direttore Bertani uno spin-off. Si accettano prenotazioni.
Sollazzo: Tra le due storie su Topolino del 2021, e “La Danza del Ragno d’Oro”, l’impressione è un po’ quella che si sia tornati ai tempi di PKNA: avventure autoconclusive seppure saldamente intrecciate alla continuity. Cosa è però diverso da quel periodo, oltre il numero di tavole a disposizione più risicato e l’assenza attuale di un vero team di sceneggiatori oltre te? Allora sappiamo che in redazione c’erano figure come Stenti, Sisto, Vitali e il direttore Cavaglione; quanto era importante il confronto con loro dal punto di vista delle trame e dello sviluppo “seriale” dei vari progetti? Chi teneva le “chiavi” della continuity e faceva sì che i vari sceneggiatori non se ne discostassero? Ora, invece, la direzione narrativa di PK è affidata esclusivamente a te o la discuti anche con altri?
Alessandro:Il bello di questo Botta & Risposta è che ciascuna domanda ne contiene in realtà a sufficienza per un’intervista completa. Allora:
Al presente Pikappa lo sto scrivendo io. Naturalmente discuto le mie idee con Alex Bertani e con Davide Catenacci, perché in ogni operazione creativa un confronto è fondamentale e perché così ho qualcuno cui dare la colpa di qualunque cosa non riuscisse ad accontentarvi. Io non l’avevo scritto così, me l’hanno cambiato loro! Ai vecchi tempi custodire le “chiavi” della continuity spettava alla redazione, infatti un mantra ricorrente era “Dove avete messo le chiavi?” “Sono lì, sulla scrivania di Stenti.” “No, quella è la chiavetta della macchina del caffè”!
Scherzi a parte, allora PKNA aveva assunto una dimensione collegiale, per cui l’interazione con il direttore, con i colleghi autori e con quelli della redazione era indispensabile per non perdere il controllo e organizzare le prospettive individuali in un insieme coerente. Confronto ad allora quindi è cambiato tutto… eppure in un certo senso per me non è cambiato nulla, poiché come nei giorni in cui sui primissimi numeri impostavo quello che sarebbe diventato un universo condiviso, racconto il “mio” Pikappa. Che è poi quanto in seguito hanno fatto tutti i compagni d’avventura, descrivendo ciò che accadeva al papero mascherato quando erano loro a guardare dalla sua parte.
La sensazione che si sia tornati a PKNA forse dipende dal fatto che io sono sempre lo stesso (un po’ invecchiato, ma quel papero no, lui è il mio ritratto di Dorian Gray) e che per quanto mi riguarda, le storie autoconclusive basate su un filo conduttore comune e “orizzontale” sono la formula adeguata a dare a chi legge qualcosa che lo soddisfi e nel contempo lo invogli a continuare. Se siete di parere diverso, consideratevi ufficialmente invitati a contraddirmi. Sapete che ne terrò conto.
Sollazzo: Chiudiamo con un riferimento a quanto di più pikappico abbiamo trovato nel Ragno d’Oro: gli scambi e i battibecchi tra Paperino/PK e Uno. Poterne leggere di nuovi oggi ci ha fatto capire quanto ci siano mancati, e quanto queste interazioni siano stati parte fondamentale di ciò che rende Pk quello che è. Come è stato, per te, tornare a scrivere scambi tra questi due dopo 21 anni? E soprattutto: qual è, secondo te, allora come oggi, il cuore di PK?
Alessandro:Sono felice che abbiate gradito trovare di nuovo i battibecchi fra quei due. Non potevano mancare e scriverli per me è stato semplicemente come tornare alla Ducklair Tower ad ascoltarli, perché Uno e il suo socio biologico sono a loro volta sempre e immancabilmente loro. Crescono, scoprono altre cose, si rendono conto di mancarsi reciprocamente quando non si vedono e tuttavia non cambiano, perché sono personaggi veri e completi, insieme a tutti quelli che li circondano. Non sono “come li scrivo”, da qualche parte esistono e ve ne rendete conto anche voi, tant’è che più d’una volta, nel corso di questa conversazione, mi avete chiesto “cos’ha fatto il tale o il tal altro in tutto questo tempo”? Perché loro, anche se non li tenevamo d’occhio, sono andati avanti con le loro vite.
Prospettiva ampia. La preferisco, specialmente quando parliamo di un prodotto come Pk, un fumetto che genera forti scossoni emotivi da ventisei anni. L’ultima volta che mi espressi in merito fu l’anno scorso, in un momento cruciale: tutto era stato messo di nuovo a repentaglio, molti disperavano, ma anche nell’ora più buia c’erano forze in gioco desiderose di ripescarne il relitto e rimetterlo in sesto.
Vediamo com’è andata, facendo una retrospettiva a volo d’uccello che parta da quel momento cruciale in cui avevamo lasciato il fumetto che diede inizio a questo posto.
Zona Franca (Sisti/Pastro). Come Una Leggendaria Notte Qualunque, anche questa storia è andata direttamente sul Topo, stavolta in due tempi. Il motivo era di permettere con questo escamotage di “evadere” dalla saga dei Galaxy Gate, che per ragioni logistiche andava pubblicata senza interruzioni nella sua testata dedicata. Trucco comprensibile per tirare fiato e donare fiducia ai lettori in un momento difficile. In una cinquantina di tavole Sisti torna a farci assaporare il suo punto di vista su Pk, prendendo lore e mitologie pregresse, ma costruendoci sopra un’idea nuova e sfiziosa: che in uno spazio fisico in cui è avvenuta una riscrittura della timeline ci possa essere margine per agire inosservati. E c’è altro: tanto per cominciare, due etti di Angus Fangus, un personaggio che Sisti “sente dentro” e che torna quindi ad essere usato in grande stile. Poi c’è Mary Ann Flagstarr, che dopo ventidue anni di inspiegabile assenza viene riaggiunta al cast disneyano, come se niente fosse. E in modo parimenti naturale, Sisti dispone nell’intreccio persino John Konnery e Axel Alpha, i personaggi creati da Artibani per il crossover con Doubleduck, aggiungendo a loro Velena Thorne, una new entry utile ad avvalorare la teoria del consiglio dei tre, espressa da Sisti proprio in un botta e risposta del Sollazzo molti anni fa. Un approccio a 360° che non dimentica niente, usando ogni strumento a disposizione per costruire in tutte le direzioni. Il lavoro di Pastro per reggere tutto questo in circa una cinquantina di tavole è enorme, e i personaggi risultano simpatici ed espressivi. Forse ci voleva qualche pagina in più e un po’ di azione in meno, dato che qua e là il ritmo risulta concitato, e di certo non penso che il pezzo forte della storia sia il robottone, che secondo me contribuisce ad alimentare uno stereotipo un po’ fuorviante sulla natura della serie. Ma al netto di tutto… Zona Franca è un atto di amore, e questo vince su tutto.
Una Nota su Cofanetti e Affini
Una Leggendaria Notte Qualunque e Zona Franca rappresentano ad oggi una piccola anomalia nel cammino seriale di Pk. Sarebbe bello vederle raccolte e immesse nel corretto flusso cronologico/editoriale di Pk. Ma dove? Entrambe hanno l’inconfondibile logo di PKNE con gli elettroni ma non hanno trovato spazio nel cofanetto definitivo uscito l’anno scorso, il che è spiacevole perché, logo a parte, costituivano una naturale prosecuzione di molte trame iniziate proprio in quel periodo. Avrebbero potuto essere inserite allora nel cofanetto speciale dedicato alle storie affini a PKNE, ma anche questo non è successo perché affianco ai più che giusti Timecrime e Pk Tube sono stati inseriti al loro posto due albi che non c’entravano niente. Nel futuro cofano dei Galaxy Gate chiaramente non potranno stare. Rimarrebbe l’ipotetico e futurissimo cofanetto con la nuova run di Sisti che potrebbe ospitarle, magari collocandole appena prima del Ragno d’Oro. Parlandone con lo stesso Sisti a Portogruaro sabato scorso è emerso che la collocazione cronologica ideale a questo punto potrebbe diventare quella. Ma si avrebbero comunque dei controsensi: il logo di PKNE fuori tempo massimo? Due storie apparse sul Topo e quindi ristampabili come Deluxe o Extra… inserite nel corpus di Topolino Fuoriserie? Narrativamente sarebbe ok, come sarebbe ok anche estendere il logo PKNE anche a tutte le storie del Fuoriserie, o inventarsene uno nuovo dato che un loro marchio specifico non ce l’hanno. Ma editorialmente?
Mi rendo conto che a prima vista queste possono risultare elucubrazioni teoriche e sterili, ma a ben vedere avere una buona consapevolezza di cosa sia stato prodotto, del suo significato e della sua collezionabilità può solo aiutare. Di recente su questo fronte è stato commesso un errore a mio avviso molto grave. La testata PK Giant si era riproposta nel 2014 di ristampare il corpus pikappico ma nel corso degli anni era andata incontro a errori di valutazione e sventure di ogni tipo che ne avevano provocato il decadimento e infine la chiusura. Per una questione di correttezza era stata però riaperta, col proposito di arrivare fino in fondo, anche a costo di andare in perdita. Era stato un gesto rispettoso per gli aquirenti, e anche lungimirante visto che le storie attuali poggiano proprio su questo materiale. Alla fine del percorso ci si era arrivati con molta fatica, tanto che verso la fine erano stati prodotti addirittura dei volumi speciali con le storie brevi per esser sicuri di non lasciare indietro nemmeno una pagina di fumetto. Se non fosse che proprio nell’ultimo volume, nel cui editoriale si sottolineava questo proposito completista, è saltata una Angus Tales. Storia che in origine era stata pubblicata un po’ distanziata rispetto alle altre della stessa serie e che quindi ci si aspettava potesse farne le spese, finendo nel dimenticatoio. Però, suvvia, sarebbe bastato un rapido controllo per notarla. Invece così siamo punto e a capo, il lavoro di ristampa non è finito, è uscito un volume che afferma cose non vere e il materiale rimasto fuori non è sufficiente a giustificare l’uscita di un altro. Davvero un peccato.
Obsidian (Gagnor/Pastro). Tornando alla dolorosa saga dei Galaxy Gate, abbiamo qui il ritorno del suo originario “showrunner” dopo la parentesi Sisti, per quello che è un tentativo di rimettersi in pista dopo i primi sfortunati numeri. Per quanto venga mantenuta quella “roboanza”, che investe anche il titolo e che a mio parere ci porta lontani da quello che è il “vero” senso di Pk, questo Gagnor “dopo la tempesta” si riesce a leggere con maggior serenità. Racconta meno, lo fa meglio e contiene qua e là anche qualche nota di rassegnazione per la sfortuna che hanno avuto i suoi personaggi. E’ la storia di un “colpo grosso” a tema spaziale, in cui i personaggi uno dopo l’altro cadono come mosche, e questo schema narrativo in genere funziona. Pastrovicchio fa il resto, e riesce a rendere chiare le scene, in un modo che dopo la performance di Lavoradori e Vian sembrava ormai impossibile. Si segnala anche una colorazione molto elaborata, che però – sarò onesto – qua e là eccede, lasciando che ombre, sfumature e altri effetti speciali abbiano la meglio sulla decifrabilità del disegno. Potrebbe essere solo un’impressione mia però, dato che altrove questi colori sono stati molto apprezzati.
I Giorni di PK (Gagnor-Sisti/Mangiatordi). E qui c’è ben poco che si possa dire. Il finale a quattro mani è anche l’albo in cui due approcci opposti a PK “dialogano” tra loro. La prima parte è palesemente in stile Gagnor, la seconda in stile Sisti. La prima cerca con immense difficoltà di dare un tono epico a una vicenda che non è partita da buone basi, che si è sviluppata molto male e che è drammaticamente naufragata, dopo il maldestro tentativo di raccontare le origini di Evron. La seconda parte ci ride sopra, cancellando gli ultimi due anni con un colpo di spugna, riportando tutto sui binari classici e divertendosi addirittura a rattoppare le incongruenze a cui erano legate le polemiche iniziali. Metafumetto puro. Si può essere tristi e arrabbiati per questo, oppure si può essere felici di vedere Pk riappropriarsi del proprio linguaggio, dopo due anni di travaglio. Ma al netto dell’ovvio massacro a cui l’opera Pk è andata incontro a partire dal 2019, un albo così non lo si può valutare né bene né male, perché è una storia inscindibile dal suo contesto autoriale. Al massimo lo si potrà studiare negli anni, perché un’anomalia editoriale del genere è a dir poco degna di interesse. Per fortuna è finita.
La Danza del Ragno D’Oro (Sisti/Mottura). Impressionante pensare come tutto conduca qui. Dopo che negli ultimi vent’anni abbiamo avuto scossoni editoriali di ogni tipo, ripartenze, pause, reboot, cambi di registro, cambi di formato, cambi di destinazione, eccoci tornati a casa. Con Paperino alla torre, con il simpatico Uno, avventure nuove di zecca e l’arguta penna di Alessandro Sisti a raccontarcele. Non sembra nemmeno possibile, è come se gli ultimi due decenni fossero stati il giro lungo per arrivare qui. La visione di Sisti è chiara: fare di Pk non una parentesi narrativa, non una versione parallela del personaggio, non un grumo male amalgamato nel mondo Disney, non un “problema”: Uno e la torre stanno lì a Paperopoli, pronti per reclutare Paperinik alla bisogna, e proiettarlo verso una girandola di avventure sempre nuove e sempre diverse. A patto, però, che siano raccontate in un certo modo.
Togliamoci prima di tutto il pensiero di dire che, ebbene sì, ancora una volta si avverte un po’ di compressione qua e là. Quarantaquattro tavole sono poche, e molte sequenze avrebbero avuto bisogno di più respiro, specialmente quelle d’azione o alcuni cambi di scena relativi alla realtà magica del ragno d’oro. Comprensibile tutto, comprensibili le difficoltà, l’epoca, la crisi della carta, ma un po’ di decompressione in più per il futuro può solo fare bene, anche a costo di diminuire gli eventi narrati, se proprio un aumento della foliazione non è possibile. Di contro, Paolo Mottura ha fatto un buon lavoro, dando dinamismo ma anche chiarezza alle tavole, e divertendosi come un matto a far saltare qua e là il buon Paperino.
Già, Paperino, 44 tavole finiscono in fretta
Detto questo, una storia del genere è figlia di un ragionamento su Pk che più giusto non si può. Questo per diverse ragioni: tanto per cominciare, è una storia nuova. Non è nuova per modo di dire, parla proprio di un argomento nuovo, apre un filone nuovo e quindi restituisce freschezza alla saga. Pur essendo nuova attinge a piene mani, però, a elementi della mitologia di Pk che erano stati messi là tanto tempo fa e usati poco: le correnti energetiche che avvolgono il pianeta e le loro implicazioni mistiche. E soprattutto coinvolge Xadhoom, la cui resurrezione avvenuta per motivi puramente celebrativi ai tempi di PKNE, aveva causato alla saga un nuovo vicolo cieco narrativo, che si spera ora possa essere risolto. Altra cosa importante è che questo filone nuovo, per la prima volta dopo tanto tempo, evade dalla solita iconografia associata a Pk: niente alieni, robottoni, superarmi spaziali, e mostri ipertrofici. Qualcosa c’è, ma non è il punto. Il titolo stesso sembra anticipare questa fuga dagli stereotipi, e preferisce rimanere enigmatico e descrittivo. Sisti sembra tenere a ricordarci che Pk è più che altro un linguaggio, un modo di pensare e di intendere le avventure Disney. Forse si perderà un po’ di pathos e di drammaticità, ma ne stiamo guadagnando sotto altri fronti. Quello della leggerezza, per esempio: Paperino che sparlotta insieme a Uno dei nuovi inquilini della torre restituisce un sapore unico, un umorismo di cui si sentiva la mancanza. E anche della profondità: Sisti è pur sempre quello de Le Parti e il Tutto, è quello del germe del proprio contrario, concetti grossi ma anche fini. Vederlo mettere sul tavolo considerazioni metafisiche sulla natura stessa della realtà mette l’acquolina in bocca. C’è margine per mettere in campo in futuro cose davvero molto interessanti, ricordando al lettore che alla base di Pk c’è il desiderio di raccontare cose folli sì, ma sempre all’interno del cosiddetto “plausible impossible”.
Plausible impossible
Penso che una volta portata a termine la meritoria opera artibanica che ha a tutti gli effetti salvato la continuity di Pk affrontando i fantasmi che l’avevano bloccato nel 2002, il next step più sensato da compiere fosse questo qui. Uno status quo stabile e a basso rischio, che permetta però alla sua anima più garbata e raffinata di continuare a esprimersi, dando a tutti una lezione di ottimo fumetto disneyano.
A due anni dal varo della piattaforma, sembra che Disney+ sia diventata una sede prediletta per alzare l’asticella della creatività e testare formati inediti e sperimentali. Mentre Marvel rilascia col contagocce gli episodi di “What if…”, Star Wars dà il proprio contributo di audacia con “Visions”, nove cortometraggi one shot prodotti da sette studi giapponesi che esplorano la Galassia lontana lontana sfruttando appieno il potenziale dell’animazione e della cultura nipponica.
Il risultato è molto felice sia in termini di resa estetica, sia per la varietà di spunti. Star Wars ha una lunga storia d’amore con il Giappone che risale direttamente alle origini del franchise, dalla fascinazione di George Lucas per il cinema di Akira Kurosawa (che ritorna prepotente nel primo episodio, “Il duello”) alle stesse religioni Jedi e Sith, che riprendono molti elementi della tradizione spirituale orientale e delle arti di combattimento dei samurai. A proposito di samurai, è difficile non notare la centralità delle spade laser nella grande maggioranza degli episodi. L’iconica arma è forse la vera protagonista di “Visions”: il legame con gli ordini Jedi e Sith e la relativa (problematica) eredità, la potenza nella lotta, la connessione con la Forza, il traguardo di un percorso di iniziazione, sono temi che vengono sviscerati con evidente passione.
A livello di trama gli episodi mantengono una qualità alta, con alcune cadute che tuttavia è facile perdonare: gli autori si sono inseriti con grande naturalezza nello spirito primigenio di Star Wars, che include tanto l’epicità, la coralità, l’intensità emotiva (alcuni momenti sono davvero toccanti) quanto… il trash. Star Wars senza una spensierata dose di trash sarebbe irriconoscibile, è nel suo DNA fin dal 1977, e anche su questo frangente ci si troverà accontentati, da alcuni peccati veniali a momenti sinceramente cringe (il terzo episodio è forse quanto di più tamarro sia mai stato partorito dal franchise) che comunque non intaccano a fondo la godibilità dell’opera.
Rimane tuttavia un dubbio difficile da nascondere, a maggior ragione a fronte dell’ottima qualità dell’opera: perché lasciarla fuori canone? Bisogna per forza produrre nuove “leggende” per trovare libertà creativa?
A chi scrive, nessuno dei nove episodi – a parte forse il terzo che è talmente fuori misura nel complesso da minare la stessa sospensione di incredulità – sembra giustificare la non canonicità. La Galassia è grande e le storie raccontate in “Visions” si svolgono in luoghi e periodi in prevalenza lontani dal centro nevralgico della saga (da molto prima di Ep. I ad un ipotetico post Ep. IX). Anzi, molti spunti sarebbero preziosi per arricchire il worldbuilding di un universo narrativo a cui l’autoreferenzialità creativa e stilistica non fa bene (si vedano ad esempio alcune debolezze di “The Bad Batch”) e che da un progetto del genere può trarre solo una sana boccata d’aria. L’annuncio di un romanzo su Ronin, il protagonista del primo episodio, lascia ancora più perplessi sulla volontà di investire così tanto in un progetto non canonico, rischiando di portare confusione quando l’idea di canone non solo può reggere, ma si può fondare sulla convivenza di tante storyline diverse in altrettante epoche.
Il concetto stesso di canone coeso si sta forse allentando? A ognuno il suo (head) canon? Oppure si cerca di stare con un piede in due scarpe, mettendo ogni azzardo creativo al di fuori del canone per sperimentare senza correre troppi rischi? Ad ogni modo, non è un segno di buona salute dover per forza decanonizzare per poter osare. Ma forse è troppo presto per valutare. Per ora, ci godiamo un ottimo esperimento, sperando che non rimanga lettera morta e che sia un preludio di maggiore coraggio creativo e autoriale.
Grandiosità. Era dai tempi di “Il Signore degli Anelli” che non ne vedevo così tanta, tutta insieme. Musiche ieratiche, costumi maestosi, fotografia imponente, worldbuilding tentacolare, narrazione epica, ambizioni titaniche. Certo, Villeneuve ci aveva dato dentro parecchio, negli ultimi tempi, con diversi di questi aspetti: inquadrature sontuose, grande cura del suono, ossessione per il racconto dei momenti di svolta (“Arrival”) e per la certosina ricostruzione di mondi e ambientazioni (“Blade Runner 2049”). E infatti si sapeva bene cosa aspettarsi, dal suo “Dune”, con o senza trailer a supportare le aspettative: sfarzo, tensione, foschie e chiaroscuri, militari a gogo.
La domanda non era il cosa, e in fin dei conti nemmeno il come: era il quanto. Quanto a fondo sarebbe andato nell’impresa di costruire un intero universo autosufficiente, e quanto avrebbe osato esasperare i suoi tic cinematografici per rendere in tutta la sua colossalità la visione fantascientifica di Frank Herbert.
Risposta: tanto.
Sulla fama di “Dune” film “maledetto” si è già detto tutto e anche di più. I tentativi di Jodorowsky (che, anche si fossero realizzati, difficilmente avrebbero tentato di tradurre lo spirito del libro); le più o meno riuscite trasposizioni televisive; l’imbarazzante-ma-in-fondo-pure-simpatico pastrocchio dell’accoppiata Lynch-De Laurentis. Inutile dilungarsi sul tema. Più interessante è indagare che cosa determinasse la quasi mitologica difficoltà di mettere su pellicola il romanzo del 1965, vincitore dei due massimi premi della narrativa fantascientifica: l’Hugo e il Nebula. “Dune” è un romanzo obliquo e complesso. Lo è quasi in modo programmatico, perché il gioco di Herbert era architettare un mondo che non fosse, come consueto nella fantascienza dell’epoca, “come il nostro ma col tale elemento bizzarro a contraddistinguerlo”, bensì sconcertantemente alieno da un lato e minuziosamente articolato dall’altro: un pianeta con una sua geografia, una sua economia, una sua geologia, e soprattutto un suo ordine ecologico credibile e autonomo. Una costruzione che spingesse il lettore a mettere in discussione le sue certezze e, alla luce della meraviglia per il “sistema Dune”, lo portasse a riammirare l’involuzione e la precarietà di quello in cui vive ogni giorno.
Non pago, Herbert inserisce il suo pianeta-deserto, Arrakis, proprio al centro della rete di relazioni che tengono in piedi — o, per meglio dire, non tengono in piedi — il neofeudale Impero Galattico. Così come l’approccio planetologico di Herbert trabocca di non-linearità di stampo ecologico, l’affresco politico tracciato è profondamente intriso di pensiero sistemico. Distantissimo dall’essere un cosmo di buoni-versus-cattivi, lo scacchiere di “Dune” è un intreccio di gruppi di potere secolari, i cui rapporti non si risolvono in un banale schema di alleanze e contrapposizioni, ma in retroazioni, equilibri precari e parziali sovrapposizioni di interessi e linguaggi. Intersezioni mutevoli che si condensano ora in intese ora in tradimenti, ora in scontri campali ora in sotterfugi, non detti, “piani dentro a piani dentro a piani” (per adottare un’espressione di un personaggio chiave, il mentat Tufir Hawat).
Tutto qui? Macché. A complicare ulteriormente il quadro, Herbert aggiunge l’elemento più caratterizzante della sua cattedrale fantascientifica: la religione. Leggende, superstizioni, visioni, estasi mistiche, droghe rituali, profezie, guerre sante, figure messianiche. Già impiegata in altre opere coeve come elemento di colore, o eventualmente di satira, la religione diventa in “Dune” la spina dorsale del crescendo narrativo che conduce il protagonista Paul Atreides, erede spodestato del feudo di Arrakis, da un apparente vicolo cieco al dirompente all-in finale.
Come trasporre tutto questo in un film? Sia chiaro, non è che all’intreccio del romanzo manchi azione filmabile. Tra imboscate, inseguimenti, esplorazioni, scontri all’arma bianca, di sequenze da cardiopalma ce ne sono in abbondanza. Ma in ogni momento il susseguirsi dei fatti è strumento, e non fine, della narrazione: il vero focus non sono le vicende, ma il worldbuilding e il suo evolversi. Per mantenere l’equilibrio, e non trasformare la pellicola in un puro avvicendarsi di botte da orbi — o al contrario soffocarla in un mare di spiegoni, serve la padronanza di mezzi e il sangue freddo che solo un regista di grande calibro può garantire. Enter Denis Villeneuve.
La mossa chiave del filmmaker canadese è, in fin dei conti, semplice: mostrare, non dire. Se proprio è necessario spiegare, spiegare solo ciò che necessario lo è strettamente: una parola, due — e al resto penseranno gesti, sguardi, movimenti di camera. Non serve illustrare i dettagli di funzionamento di uno scudo cinetico (strumento di difesa essenziale dell’universo narrativo): è sufficiente buttare lì un “la lama lenta passa lo scudo” nel mezzo di un combattimento di addestramento. Ha senso, suona come qualcosa che i personaggi potrebbero effettivamente dirsi. E da lì in poi fornisce una chiave interpretativa ineludibile per ogni scontro armato a cui lo spettatore assisterà. Qualche frase sussurrata dal protagonista Paul Atreides al medico di corte in una lingua privata, e un attimo dopo una comunicazione tra Paul e la madre attraverso gesti della mano, visibili solo a loro due: tanto basta per mettere a fuoco come l’erede al titolo di Duca debba padroneggiare codici molteplici, e viva in un ambiente dove tradimenti e segretezza sono la regola più che l’eccezione. Il gigantesco verme delle sabbie, protagonista dell’ecologia di Arrakis: due nozioni introduttive date diegeticamente da un’audioguida, e poi eccolo lì, in tutta la sua lovecraftiana estraneità. Ci pensi chi sta davanti allo schermo a desumerne i tratti fisiologici e comportamentali.
Non per tutto c’è spazio: di che cosa siano i “calcolatori umani” mentat non se ne fa menzione (anzi, il termine non viene nemmeno mai impiegato), né si presenta la raffinatezza del condizionamento dei medici Suk e del modo in cui il mentat al servizio della casata Harkonnen, Piter De Vries (altro nome mancante), lo utilizzi per infliggere un colpo letale agli arcinemici Atreides. La figura dell’ecologo imperiale Liet-Kynes è (oltre che appropriatamente cambiata di genere) molto meno stratificata che nel romanzo, e delle svariate corporazioni che contribuiscono al balance of power del Duniverso solo una, la sorellanza Bene Gesserit, è mostrata con una certa chiarezza. Ma da qualche parte si doveva tagliare — e in fin dei conti dovrebbe esserci quantomeno un altro film a permettere il perfezionamento del mosaico.
Liberato il minutaggio dalla spada di Damocle degli infodump, Villeneuve ha campo libero per fare il Villeneuve. Per incorniciare paesaggi, architetture e scene di massa in grandangolo da capogiro, che da soli fanno una buona parte della travolgente grandeur del suo “Dune”. O condensare in campi stretti e inquadrature ipergeometriche situazioni apparentemente collaterali rispetto al flusso principali della narrazione, ma in grado di portare nell’affresco generale anche le prospettive di personaggi che a copione non hanno una singola battuta. Coi suoi onnipresenti tagli di ombre e luci sottolinea la durezza dei momenti più problematici (essenzialmente: tutti), e dove non arriva coi contrasti netti porta la sua quintessenziale ossessione per i vedo-e-non-vedo, ottenuti con ogni mezzo possibile (caschi, veli, apertura del diaframma, bruma, tempeste di sabbia, perfino ologrammi e liquami).
Il richiestissimo compositore Hans Zimmer, che per quanto iperprolifico ha dovuto dar buca a Christopher Nolan per comporre la colonna sonora del film, fa un ottimo lavoro nel sottostare al dogma villeneuviano della completa fusione tra musica e immagine: la sua partitura è avvolgente, minacciosa, sacrale. Si mantiene stabilmente straniante pur incorporando elementi percussivi, vocali e folklorici che danno a scenari e protagonisti una loro distinguibilità. Permea ogni istante di mistero e urgenza senza cedere per un istante alla tentazione del leitmotiv anche solo vagamente orecchiabile.
Villeneuve taglia, si diceva, ma altrove conserva, aggiunge, prende tempo. Dedica i primi quaranta minuti alla costruzione, tassello dopo tassello, della responsabilità soffocante che grava sulla casata Atreides e sul suo rampollo. Si dilunga goduriosamente sui meticolosi combattimenti spada-e-scudo, quasi a volerne fare una versione atletica e brutale degli scacchi. Qua e là strafa: qualche dialogo non presente nel libro suona stucchevole, le visioni di Paul sono insistenti e pedisseque, la resa dell’amicizia tra Paul e i due tough guys della corte — Duncan Idaho e Gurney Halleck — scade spesso nel cliché. Poco importa: quando si gioca grosso, qualche cantonata va messo in conto di prenderla. La solidità generale non ne risente. Serratissime, le due ore e trentacinque del film sanno concedersi qualche raro momento di distensione: passaggi “non necessari”, eppure deliberatamente inclusi nella pellicola, che svelano più di tutti lo sguardo creatore del regista.
La duplicità della relazione tra Paul e Lady Jessica, al tempo stesso madre affettuosa e addestratrice inflessibile; il rapporto col padre Leto, formale ma ricco di comprensione, e l’inedita caratterizzazione greco-celtica della casata e dei suoi parafernalia; l’intesa tra l’ecologo Liet-Kynes e il giovane Atreides (ma non col vecchio); l’interesse di Paul per le piante del giardino di corte e l’uomo che le cura — questi elementi, alcuni fedelmente riportati dal romanzo, altri inventati di sana pianta, potevano far parte come non far parte della sua trasposizione cinematografica. Giacché il regista e il suo staff hanno voluto incorporarli, vale la pena interrogarsi sul perché. Un abbozzo di risposta può suonare così: mentre il “Dune” di Herbert è una machiavellica decostruzione del potere e dei sottosistemi che, contendendoselo, lo generano, il “Dune” di Villeneuve pare riproporsi un obiettivo più puntuale, ma comunque ardimentoso: costruire relazione dopo relazione un eroe che sia vero, non frutto di predestinazioni e deus ex machina ma di legami, azioni, scelte (proprie o non proprie) comunque tracciabili. Paradossale, forse, per un personaggio che è presentato come l’eletto nato da piani genealogici lunghi millenni, ma è probabile che questa sia la prospettiva più indicata per leggere una delle poche frasi del duca Leto al figlio: “Un grande uomo non cerca il comando. È il comando a chiamarlo. E lui risponde.” Con la possibilità che la risposta sia “No”.
Il “Dune” di Frank Herbert è stato una rivoluzione nella letteratura fantascientifica. Il romanzo era Assieme una prosecuzione e una critica della “scienza del futuro” asimoviana: prendeva la limpidezza matematica della “psicostoria” (disciplina di pianificazione del futuro alla base del ciclo delle “Fondazioni”) e la sminuzzava in una Babele di preveggenze miopi e disumanizzanti, ciascuna destinata a lasciare il suo detentore eternamente prigioniero dei propri schemi. Il “Dune” di Jodorowsky-Moebius-Giger-Foss-O’ Bannon, che non è mai stato, avrebbe lasciato comunque il segno sulla fantascienza cinematografica a venire, e assai probabilmente ha gettato gli spunti che, volti in ridicolo, hanno sancito il successo galattico di Star Wars. Tatooine e Arrakis, Jabba the Hutt e il barone Vladimir Harkonnen, gli Stormtrooper e i Sardaukar, i Jedi e le Bene Gesserit, le spade laser e gli scudi cinetici: difficile, accostando l’universo di George Lucas a quello di Herbert, non ipotizzare che il primo abbia come spunto un’efficace banalizzazione del secondo (verosimilmente pre-digerito dal team del primo, sfortunato tentativo cinematografico).
Quale sarà l’impatto del “Dune” di Villeneuve? Difficile fare previsioni. Per intanto, c’è da tenersi stretta questa coraggiosa space opera che non teme l’epicità ma nemmeno la butta in caciara, che si mostra fieramente estetizzante ma mette al centro storia e personaggi. A Star Wars siamo assuefatti e presto o tardi lo saremo anche a Nolan e al suo cinema a orologeria. C’è davvero da augurarsi che qualcuno prosegua sulla scorta di Villeneuve, avventurandosi lungo la strada intermedia che sposa immediatezza e tecnica con la passione un po’ deviante per la costruzione di altri mondi. Quali mondi? Ci sono biblioteche piene di romanzi perfettamente atti allo scopo. Anche assai più semplici da adattare, peraltro.
Che è un po’ la sintesi più efficace di questo momento del settimanale. Alex Bertani, al suo terzo anno di direzione, sta facendo emergere in maniera sempre più netta la sua visione del giornaletto del mercoledì, certo da un punto di vista editoriale e redazionale, ma anche e soprattutto da quello narrativo, visto che lo stesso Bertani si è autoincaricato di supervisionare il lavoro degli sceneggiatori.
Cose che succedono
E leggendo le storie apparse sui numeri 3429 e 3430 (il secondo in edicola ora), l’impressione è proprio che succedano cose, ovvero che ci sia un universo narrativo che i personaggi abitano e dove le cose… Cambiano. Dai diversi interessi dei nipotini, ripresi in tante storie diverse, al ritorno di Paperinik al suo ruolo di “vendicatore” sotto le cure di Marco Gervasio, fino alla svolta thriller data al personaggio Topolino da Marco Nucci, che ha ora trovato in Macchia Nera il villain ideale per promuovere queste atmosfere, assenti sulle pagine del Topo da un bel po’ di tempo.
That damned smile
L’idea, non certo rivoluzionaria, è comunque innovativa per il settimanale, che aveva sempre relegato la continuity a saghe “spin-off” o ambientate in universi alternativi. Ora che queste saghe sono state piazzate fuori dal giornale (su “Topolino Fuoriserie”, appunto), le sue pagine possono essere utilizzate per sviluppare il mondo “regolare” degli standard characters, in un modo che può piacere o non piacere, ma di certo desta interesse.
Ok, i colori non ci servono più, mi sa
Nell’ultimo numero, poi, un ulteriore passo è stato compiuto: l’intento sembra quello di dare una chiusura alla storyline di Reginella, cristallizzata negli ultimi anni in uno status quo ben poco soddisfacente per chi ha apprezzato le origini del personaggio. Ai testi Vito Stabile e lo stesso Bertani, che qui si incarica di sceneggiare in prima persona una storia carica di atmosfera (plauso per questo anche all’ottimo Zanchi), che non ha paura di prendersi dei tempi dilatati per creare interazioni verosimili, ed emozionanti, tra i personaggi.
Atmosfera, dicevamo
Insomma, il Topolino di Bertani è ormai venuto del tutto alla luce. Alcune storie sono molto riuscite, altre meno, ma quantomeno sembra di leggere qualcosa creato nel ventunesimo secolo, dove si è finalmente capito che concetti come “continuity” e “worldbuilding”, lungi dallo scoraggiare i fruitori, possono contribuire a portarli in edicola, così come da un po’ di anni li portano infallibilmente al cinema.
Se la scommessa è vinta, ce lo dirà il tempo. Nel frattempo, noi si legge.