Parliamo di Fumetto.
Il percorso di Teresa Radice e Stefano Turconi presso BAO è di quelli che non puoi non seguire, specie se sai da dove i due sono partiti. Vedere quanto di buono sia stato tratto dall’esperienza disneyana e trovarlo qui galvanizzato in una fase di completa libertà creativa è a dir poco affascinante.
In questi giorni è arrivato Il Contastorie, che è la loro sesta graphic novel. Ambientata nel Brasile degli anni 60, è la storia del piccolo Pedro e del suo viaggio. Anzi, dei suoi due viaggi: uno attraverso l’Amazzonia, per accompagnare la fuga del suo inguaiatissimo fratellone, e uno interiore per riuscire ad accettare le scomode verità su di lui. E’ una storia di crescita, di maturazione, che passa però attraverso il tradimento, la delusione, e infine la comprensione.
Graficamente Turconi si conferma sbalorditivo. Il suo tratto disneyano qua e là sembra sfiorare stilisticamente la Nidasio, mentre il gran lavoro fatto sul colore restituisce il sapore di una nostalgica cartolina. Non è la prima volta che lo vediamo agli acquerelli, ma nel contesto amazzonico questa scelta permette al cervello di effettuare collegamenti subliminali con una certa canzone di Ary Barroso.
E poi c’è la scrittura. Teresa limita il suo fiume di parole agli stralci di diario che il piccolo protagonista semina lungo tutta la storia, mentre per i dialoghi in presa diretta appare decisamente secca, asciutta, realistica e a tratti brutale. Già da un po’ di tempo emerge nei suoi lavori un certo gusto per la rappresentazione degli aspetti negativi dell’animo umano, e il bello è che il male non viene mai demonizzato e rifiutato, ma accolto e accettato come parte del pacchetto. Accadeva ne Le Ragazze del Pillar, ne La Terra, il Cielo e I Corvi e accade qui, quando vedi i personaggi comportarsi male, odiare, essere vigliacchi. E va bene così, insegna la storia, perché crescere è anche disilludersi.
Al positivo ci si arriva, ma attraverso la fanghiglia, e così si giunge al capolinea emotivamente coinvolti. Il Contastorie ha saputo sfiorarmi, a tratti violarmi. Che è un po’ quello che la buona narrativa deve fare.
Da avere.