La nostalgia tradita di Ready Player One

«Era meglio il libro!»

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MAI, mai leggere i libri prima di vedere i film. Non ho pensato a altro che a questa profonda verità oggettiva per tutta la durata di Ready Player One, il secondo nuovo film di Steven Spielberg in tre mesi (viviamo in tempi interessanti), tratto dall’omonimo romanzo di Ernest Cline del 2011. Ho cercato di leggere il romanzo a tempo di record nelle settimane scorse, insieme a altri romanzi che ho cercato di leggere a tempo di record prima dell’imminente uscita di altri film tratti da essi e che parimenti mi sono rovinato. Non imparo mai, MAI.

No: non era meglio il libro. Il libro sta al sottobosco geek come Twilight a quello delle ragazze in tempesta ormonale: una lettura scorrevole di un autore inter pares, senza distinte capacità affabulatorie ma che i suoi pari li conosce, condivide le loro fantasie e ne propone una bulimica celebrazione, senza timore di giudizi e pregiudizi, come un Mosè liberatore di un popolo di schiavi contro il conformismo oppressore!!

Steven Spielberg invece non ha pari. Non ha senso aspettarsi dal cineasta per antonomasia un lavoro autoconsolatorio come il libro di Cline. Ha senso la nostalgia anni ‘80; ha senso il genere fantascientifico; ha senso l’attenzione al pubblico giovane e l’ambizione a cult generazionale. Ma nessuna di queste aspettative limitanti può giustificare un paragone col limitato “libercolo dei nerd”.

Quel libercolo però ha dalla sua i vantaggi del formato. Un libro, specialmente se l’autore è esentato dall’esercizio consapevole della prosa, ha una capienza di informazioni nettamente superiore a quella di un film di due ore (e venti). Quella abbondanza di informazioni è il vero punto di forza del romanzo, e la vera ragione per cui averlo letto può condizionare la visione del film.

Non mi dilungherò nella lista di differenze fra libro e film perché sono tante. Sul confronto fra le due opere sentenzio che l’esperienza è migliore al cinema ma il racconto è migliore nel libro. Se poi si conosce bene l’inglese, si può migliorare l’esperienza di lettura facendosi raccontare Ready Player One dall’icona geek Wil Wheaton in forma di audiolibro.

«I videogiochi sono arte!»

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Che poi c’è nerd e nerd. Ready Player One, come suggerisce il titolo stesso, si rivolge ai giocatori, i nerd dei videogame. Nel libro si compila una sorta di canone della nerditudine che comprende persino la musica e addirittura i film dei Monty Python! Non li avevo mai considerati un dominio nerd, devo ammetterlo. Ma sono i videogiochi il dominio distintivo di questa storia.

Il protagonista del film è Wade Watts, che ha le iniziali del nome uguali come nelle identità segrete dei supereroi americani, un adolescente rifugiato nel mondo virtuale di Oasis perché disadattato nel mondo reale. Una condizione che condivide però con il resto del mondo. Siamo infatti nel 2045: l’insostenibilità energetica ha reso il mondo reale una cloaca invivibile, ma anche nella roulotte piú sgangherata c’è un visore e un collegamento a internet per immergersi in Oasis, l’immenso MMORPG creato dal genio supremamente disadattato di tal James Halliday e diventato talmente popolare da sostituire l’economia mondiale, tanto che le conseguenze delle attività nel gioco si soffrono anche nella realtà.

Alla sua morte Halliday ha lasciato un testamento video dove prometteva di passare la proprietà di Oasis a chi avrebbe trovato l’easter egg nascosto nel gioco. Questo easter egg emergerà al termine di una caccia al tesoro scandita dalla ricerca di tre chiavi: la Chiave di Rame, la Chiave di Giada e la Chiave di Cristallo. Gli indizi per trovare le chiavi sono nascosti nei diari (virtuali) di Halliday, che raccontano di una vita da recluso antisociale completamente dedito alla cultura popolare e alla conseguente creazione di Oasis. Chi piú conosce la cultura pop e piú ammira la vita di Halliday ha maggiori possibilità di riuscita. Nelle intenzioni di Halliday la Caccia è un’occasione di riscatto per i geek di tutto il mondo, ma a inseguire il premio c’è anche una spietata multinazionale, la IOI, che affronta la Caccia in esplicito assetto di guerra, tanto in Oasis quanto nel mondo reale.

Fra i partecipanti alla Caccia (chiamati gunter, da egg hunters, “cacciatori dell’easter egg”) che troveranno presto ragione di allearsi con il nostro protagonista Wade, il cui avatar in Oasis si chiama Parzival, ci sono quattro giocatori: Aech, Art3mis, Daito e Sho. Quasi immediatamente Parzival sviluppa una cotta per la bella e cazzuta Art3mis, ragione per cui parallelamente alla Caccia Wade comincia a rivalutare le necessità fisiologiche del mondo reale.

Ho voluto, qui, ripercorrere la trama del film per evidenziare come (tanto quanto nel libro) l’orgoglio da videogiocatori alla base di questa storia rinuncia a giustificazioni o “scuse” come lo studio di un videogioco, la critica di un videogioco, la considerazione di un videogioco come un’opera d’arte; niente di tutto questo: la storia rivendica l’esperienza ludica in quanto alternativa, aumentante, in definitiva migliore dalla realtà, salvo concludersi ipocritamente con l’epifania che «solo la realtà è… reale!».

«Graziarca…», direbbe qualcuno. Alla fine è questa la “scusa”, e non è una concezione della cultura geek che faccia molto bene alla nostra causa.

«Porcogggiudailgigantediferro!»

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Il Gigante di Ferro (personaggio dell’omonimo film d’animazione del 1999 diretto da Brad Bird lo so che lo sapete tutti) è l’emblema dell’approccio di Spielberg rispetto al romanzo e della sua necessità di raggiungere un pubblico universale. Nel libro, per dire, il Gigante di Ferro non c’è. Peggio: lo si nomina solo per poi preferirgli tutt’altra gamma di robot. Il film invece ha giocato una grossa porzione della sua promozione sulla presenza del robottone, piazzato già al culmine del trailer. Un richiamo estetico di questo tipo ha sicuramente un’eco maggiore presso il pubblico di Spielberg di quanta ne abbiano i robottoni degli anime giapponesi.

Il Gigante di Ferro è mostrato come semplice esoscheletro e non come personaggio. Nonostante quando il Gigante apre gli occhi la prima volta arrivi una scarica di emozioni irresistibile e un’ondata di ricordi da brividi, il Gigante di Ready Player One è soprattutto il simbolo della vocazione di iperazione del film, protagonista dell’epica battaglia fra colossi (o “boss finale”, per riprendere il gergo videoludico) che è la scena madre di tutta l’opera: una scena attesa ma non costruita; epica in sé, per gli effetti speciali e il rumore, e non per una vera necessità o rilevanza narrativa. Stupido spoiler: non c’è nemmeno un morto importante, per dire. Una simile scena madre è anche all’inizio, quella della corsa motoristica dove il nostro protagonista Wade guida una replica della DeLorean di Ritorno al futuro.

Alla fine il Ready Player One di Steven Spielberg, purtroppo, è tutto in queste scene madri realizzate interamente in computer graphics, e nelle scene figlie di uguale natura.

Oltre all’azione e agli effetti speciali, il film offre anche un saggio dei traguardi raggiunti nella resa in computer graphic e motion capture degli esseri umani, sempre piú avanzata e al punto che ho avuto momenti quando non mi accorgevo piú della differenza fra le scene virtuali e quelle live-action. Sui primi piani però la finzione è ancora lampante, anche se non piú repellente come ai brutti tempi di Final Fantasy. Se lo zio Steven non avesse scelto di indugiare troppo spesso sui primi piani (e non ci regala neanche una “Spielberg face” fatta a mestiere!) mi sarebbe quasi scappato un complimento.

«Ho undici anni: ammazzatemi per primo!»

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È un film per ragazzi, chiaro. Ma dov’è il confine fra l’adolescenza e la nerditudine? Da Steven Spielberg mi aspettavo una presa di posizione chiara al riguardo. Spielberg è l’autore del Novecento che ha definito il senso della meraviglia dell’adolescenza: è un dolore vedere in un suo film un nuovo branco di amici cazzeggiare per un videogioco (poi rinnegato) invece che fra di loro o con gli alieni o con i dinosauri o con gli scienziati pazzi o con i fantasmi; vederli agire per vincere e non per scoprire; mascherarsi e isolarsi invece di strabuzzare gli occhi alzando lentamente lo sguardo verso una nuova imponente sorpresa.

Alla fine di Ready Player One io ho percepito una perdita: i giovani protagonisti non hanno coltivato un ricordo formativo e prezioso, il proverbiale «tesoro che è dentro di te», o «la meta è il viaggio». Il tesoro del film (lo “easter egg”?) è un colpo di spugna, un’ammissione di colpa per abbracciare un terrificante, conservatore, omologante, anacronistico status quo. Il film ambiva a diventare cult generazionale, come dicevo all’inizio, ma che ispirazione fornisce al pubblico dei ragazzi (per tacer delle ragazze)?

La malinconia di un’esperienza irripetibile ma incancellabile dalla memoria e preziosa piú di tutto; il “ricordo di un estate” del suggestivo sottotitolo italiano di Stand by Me (1986); il momento dello striscione “WHEN DINOSAURS RULED THE EARTH” del finale di Jurassic Park (1993); l’educazione sentimentale dell’androide che voleva diventare un bambino vero di A.I. intelligenza artificiale (2001); il sacrificio del Gigante di Ferro, che qui si ha anche l’ardire di richiamare; insomma: il culmine catartico che dà alle fantasie letterarie la dignità di strumenti di vita, liberandole dalla colpa originale di essere finzione, è ciò che Ready Player One invece nega, condannando la finzione e abdicando alla meraviglia. Lo fa il libro e, ahimé, Spielberg gli è andato dietro: ha potuto cambiare molto, perché non questo? Che il maestro del sense of wonder la meraviglia lasci a desiderarla è un tradimento sconcertante, ancor di piú se i traditi sono della generazione giovane.

«E John Williams che dice? John Williams che fa?»

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Se il tradimento, come appurato, è nel senso della meraviglia, non si può non imputare parte della colpa anche all’assenza di John Williams. Il compositore delle musiche di Ready Player One, Alan Silvestri, qui lo sostituisce e si toglie pure lo sfizio di autocitarsi, visti i ripetuti riferimenti al suo Ritorno al futuro. Ma è evidente la sudditanza psicologica nei confronti del venerabile John Williams, tradizionale collaboratore di Spielberg caduto però nelle grinfie della Disney che non lo lascia libero un secondo dagli impegni starwarsiani.

Fino a qualche anno fa si usava dire che l’unico film di Spielberg non musicato da Williams fosse Il colore viola (1985). Non era propriamente vero (Williams mancava anche agli inizi, in Duel, 1971, e nell’episodio di Ai confini della realtà, 1983) ma è vero che l’assenza di Williams ha cominciato a essere piú frequente (Il ponte delle spie, 2015, e Ready Player One, 2018: due volte in tre anni; cinque in cinquant’anni).

Silvestri, senza pressioni, ha una sua personalità da compositore, e è sempre stato considerato un degno epigono di Williams senza mai doverlo imitare. In Ready Player One l’imitazione però si sente e non ho potuto fare a meno di pensare che John Williams, invece, avrebbe potuto addirittura salvare il film dal pigro tradimento di cui quest’ultimo, ormai, s’è macchiato.