Due anni di attesa

La seconda stagione de Gli Anelli del Potere ci ha salutati ieri sera. E l’aver provato sgomento di fronte all’attesa di due anni che si prospetta è stato… epifanico.

Negli ultimi tempi le grandi major ci hanno abituati al troppo, alla serializzazione selvaggia, ai franchise faticosi. Ci hanno messi nella condizione di non provare davvero mancanza di qualcosa, perché tanto arriva tutto, pure troppo. Ci hanno abituati alla prospettiva che di qualsiasi storia possiamo avere seguiti, spinoff, espansioni che generano altri spinoff e quando ormai la mammella è vuota… reboot, perché tanto le storie si possono aggiornare e riraccontare nei secoli dei secoli, ossessivamente fino a svuotarle. E a svuotarci, perché il nichilismo che ho visto in giro in questi tempi di vacche grasse è stato spaventoso.

Poi arriva questa serie e torna la magia. Ce n’era bisogno? E di colpo la risposta è “sì”. Attenzione, non “sì, pur considerando che” o “sì dai, meglio così piuttosto che inventarsi altro”. No, no, la risposta è “sì”. Hanno preso la saga più bella, il Legendarium tolkieniano, e hanno colmato una lacuna letteraria vecchia quasi un secolo. Il professore non era mai davvero riuscito a dare una forma definitiva alle prime due ere, e tutto ciò che avevamo della seconda erano un paio di testi sommari posti in appendice al Silmarillion. Il che era un peccato, perché i prodromi della saga del Signore degli Anelli risiedevano lì: la creazione degli anelli, la caduta di Numenor, l’ascesa di Sauron. Gli autori hanno fatto una cosa difficilissima: ci hanno dato la sugna negata fino ad oggi, e l’hanno fatto costruendoci sopra una splendida narrazione, congrua a quel poco che Tolkien scrisse a riguardo. E fa quasi impressione come ogni elemento che su schermo sembra nuovo in realtà tragga le sue radici da dettagli infinitesimali sparsi non solo nelle opere edite, ma anche nei testi di quella History pubblicata postuma. Nomi, spunti, dotte citazioni, opportunità varie, gli autori si sono studiati attentamente tutto, rintracciando e tessendo i fili narrativi più utili a intrecciare tutto in modo plausibile. E man mano che emerge l’affresco si rimane colpiti da quanto questa operazione abbia risarcito e aiutato Tolkien, salvando una parte del suo lavoro e esportandone filosofie che ai tempi dei – comunque bellissimi – adattamenti di Peter Jackson non erano percepibili.

Opera enorme, su un piano concettuale e ovviamente anche cinematografico. Dell’estrema attenzione riservata alla composizione dell’immagine mi ero già accorto due anni fa. Qui si è continuato sulla stessa linea, e lo stesso vale per la musica. Una bomba come Wandering Days non c’è (ma viene ripresa), ma c’è tanto altro tra cui la messa in musica della poesia di Bombadil, momento che difficilmente dimenticherò. Ma quello che davvero monopolizza l’attenzione è la dinamica Annatar/Celebrimbor, vero e proprio fulcro di questa seconda stagione. Gran livello recitativo, dei dialoghi, scene disturbanti e d’impatto, una storia di manipolazione e violenza psicologica tanto magica quanto realistica. Sauron è stato reso un Personaggio di tutto rispetto, ed è stato fatto a partire da ragionamenti filosofici nati dalle carte di Tolkien e condivisi dall’attore stesso, uno dei più informati sui testi in questione.

Essere stati in grado di implementare Tom Bombadil nel tutto poi va oltre la semplice goduria filologica: sono riusciti a togliersi questo sassolino dalla scarpa e a farlo in modo interessante, imprevedibile e ancora una volta in linea con la filosofia di Tolkien. Si potrebbe parlare poi di molto altro: la storia di Adar, la gestione dei nani, fra le cose migliori. Oppure le entesse, gli sturoi e altri elementi che hanno finalmente preso forma dopo esser stati per decenni solo dei nomi. Da notare inoltre che alcune delle storyline “umane” che avevano avuto molto spazio nella prima stagione sono state nettamente ridimensionate, ma senza dar troppo l’impressione di una modifica in corsa. Insomma, un lavoro tanto ispirato e ben curato da giustificare i due anni di attesa.

Ma la serie è interessante anche su un piano antropologico. Quanto accaduto in rete due anni fa è stato inquietante. In molti ci sono cascati, altri sono stati condizionati e in generale la malafede innata e quella indotta si sono mescolate tra loro, rovinando l’esperienza di tutti. Due anni fa non eravamo però stati ancora del tutto vaccinati dai mali del nuovo internet e dalle ripercussioni sociali e politiche che ne sono conseguite. Ora abbiamo capito che dietro molti incidenti del genere c’è altro. Quest’anno ho pensato per qualche giorno che la cosa si sarebbe ripetuta, e stava effettivamente per ripetersi. Ma ho visto anche qualcos’altro, ho visto un pubblico che non aveva più voglia di farsi molestare, che ha alzato la testa e ha deciso che l’esperienza meritava una tutela. In svariati punti della rete sono sorti gruppi, bolle, aree protette in cui poter coltivare la passione per questa serie in santa pace. E all’interno di questi contesti ho visto finalmente fiorire quello che mi aveva portato su internet nel 2004, ovvero le informazioni, la ricerca, il desiderio di scavare e condividere. E io stesso ho imparato, ho colto il doppio delle cose, e ho allargato la mia cultura tolkieniana. E, dati, i risultati mondiali, la situazione è sotto controllo e il prodotto in salute.

Certo, mi sarebbe molto piaciuto che questa “riscossa” fosse avvenuta anche in altri contesti che in questi due anni ho visto letteralmente marcire. Ma forse in quei casi il prodotto non era “muscoloso” quanto questo, e pur non meritando tutto il fango ricevuto, non è stato in grado di difendersi a sufficienza. E forse non ha avuto alle spalle un contesto produttivo in grado di far credere alla gente che malgrado tutto il piano rimarrà lo stesso. Il pubblico è influenzabile, volubile ma una cosa la “sente”: se chi ti propone una storia ci crede veramente. Se dietro le tue parole vedono una strategia, un po’ di insicurezza o capiscono che virerai a destra o a manca a seconda della ricezione, se chi racconta tende a farsi distrarre dal rumore… il carisma del narratore svanisce e il pubblico pure.