Il Ritorno di Miyazaki

Torna Hayao Miyazaki, lo fa in pompa magna, nel plauso generale e d’un tratto si notano tante cose dello scenario culturale che noi occidentali abbiamo costruito in questi ultimi anni. E capiamo di botto cosa non va, cosa si è rotto, e come mai ne siamo stanchi.

Il Ragazzo e l’Airone arriva così, brutale, sincero, senza alcuna voglia di accattivarsi le nostre simpatie. Che in Giappone sia uscito senza nemmeno un trailer è una mossa spavalda, la tipica mossa di chi piace proprio perché non ha alcuna voglia di piacere. E il pubblico in effetti vuole questo, seguire chi non ha bisogno della sua attenzione, mentre non vuole narratori che sotto sotto si mostrano insicuri e bisognosi, non vuole essere rincorso. Soprattutto non vuole più schemi, formule, giocattoli di cui ormai si conoscono già le regole. Nessuno vuole più vedere quei fili che i grandi colossi occidentali hanno mostrato fin troppo bene negli ultimi tempi.

Fin dall’inizio il film sfoggia tutta quella gravitas di cui l’animazione occidentale sembra oggi sprovvista. Non c’è alcuna paura di incappare in tempi morti, silenzi, tutta la prima parte dialoga con lo spettatore in modo incredibilmente maturo, serio, realista. Lo spiazza, vomitandogli addosso suggestioni anche molto pesanti. L’idea di un airone che sembra avere una faccia in bocca disturba, incuriosisce, stimola come poche altre cose e fa capire come mai in questo momento si abbia bisogno di queste cose.

Ma man mano che ci si inoltra in questo strano pazzo mondo ci si ricorda anche come mai Ghibli, salvo rari casi, è sempre stato una nicchia. Perché questo è un film del Miyazaki tardo, il più barocco in assoluto. E Hayao è sempre stato un gran maestro di suggestioni, un esteta, ma anche un narratore confusionario, incapace di calibrare al millimetro ogni elemento. E quando si arriva ben oltre la metà se ne paga lo scotto ampiamente. Le regole di questo strano mondo sembrano cambiare a convenienza, si passa da sembrare un oltre/antetomba a un fantasy, ad un certo punto inizia una strana guerra dei parrocchetti distraente e ridondante. Alcune info mancano, altre ci sono ma arrivano nel punto sbagliato, certi personaggi sembrano cambiare ruolo senza dar tempo allo spettatore di metabolizzare gli eventi.

Poi alla fine tutto diventa più chiaro e ci si ritrova in mano una bella favola sull’elaborazione del lutto e sulla voglia di vivere malgrado la paura della morte. E ci si rende conto che film come questi li capisci solo se ci pensi “a volo d’uccello”, ma se ti inoltri troppo nei meandri della narrazione ti perdi nelle falle.

Quindi boh. Tra il nostro meccanicismo un po’ ingessato e questa autorialità selvatica io auspico si possa trovare una quadra. Perché il cinema d’animazione fatto così è sicuramente bello, ma non ci vivrei.