Pk – La Run di Roberto Gagnor

Disamina di un Dettaglio

Ebbene sì, cominciamo da un dettaglio.

Nella nuova serie di Pk, la cosiddetta run di Gagnor, l’intelligenza artificiale Uno partecipa “fisicamente” all’azione, proiettando la sua sfera verde in un altro spaziotempo. Lo vediamo quindi intervenire, lottare, svolazzando intorno agli altri come se fosse una pallina volante. A tratti sembra una presenza fisica, a tratti olografica, a tratti un grumo di dati capace di inserirsi nei database nemici come un virus. Il suo status varia a seconda di quello che la trama richiede.

A prima vista questa singolarità potrebbe sembrare cosa da poco, una semplice scelta giustificabile con una tecnobubbola qualsiasi, o al massimo un semplicissimo blooper come tanti. Nulla su cui il lettore intelligente e con un briciolo di prospettiva potrebbe doversi soffermare.

Da Intelligenza Artificiale a Genio di Aladdin

Ad un’analisi più accurata tuttavia questa leggerezza rivela molto altro, ed è sintomo di un approccio errato a Pk. Questo per due motivi sostanziali.

– Il primo è la natura stessa della sci-fi di Pk. La serie nasceva con presupposti un po’ diversi dal classico Topolino. I personaggi per spostarsi nello spazio e nel tempo dovevano far ricorso a stratagemmi ben più ragionati, sfruttando una “fisica” elastica, magica ma con un fondo di plausibilità. Una derivazione anni 90 del principio del plausible impossibile teorizzato, guarda caso dallo stesso Disney mezzo secolo prima. Praticamente secondo questo principio va bene lasciare la fantasia a briglia sciolta, a patto però di costruirle intorno una patina di credibilità. Negli anni 90 questa patina veniva garantita dalla presenza dei Pk-Project, rubriche in cui gli stratagemmi sci-fi di Pk venivano “spiegati” ricorrendo a tecnobubbole fantasiose… ma sempre con una base reale. Più di recente questo ruolo è stato ereditato dai Botta e Risposta ospitati qui sul Sollazzo in cui autori come Artibani e Sisti si sono divertiti a “immaginare” per i lettori i meccanismi che soggiacevano a ciò che veniva messo in scena nelle singole vignette. Crederci, o fingere di farlo, portava il lettore a suo volta a crederci, ed è così che andava a crearsi quel bellissimo gioco collettivo che era la lore di Pk. In soldoni, non è vero che nella scifi tutto è possibile: se vale tutto allora niente ha più senso.

– Il secondo è il percorso stesso che negli anni ha avuto il personaggio di Uno, una delle figure più belle e poetiche mai sviluppate dalla scuola fumettistica italiana. La sua natura artificiale, il suo desiderio di evoluzione, i suoi stessi limiti negli spostamenti sono sempre stati grandi protagonisti dell’epopea pikappica. Quando Uno doveva “viaggiare” lo faceva trasferendo la sua memoria in dispositivi appositi, a volte lasciando la torre sguarnita del suo custode e svuotata della propria anima. Non era una cosa comoda, e infatti proprio questo desiderio di mobilità e di umanità hanno portato alla nascita della figura di Odin Eidolon. Le pagine con cui ci è stato narrato il passaggio da macchina a uomo, reso possibile dall’assorbimento di una parte di Due (il germe del proprio contrario) hanno fatto la storia del fumetto Disney italiano. Presentare una boccia volante che va a zonzo per la galassia e a spasso nel tempo come se nulla fosse inevitabilmente sminuisce tutto questo. Ci si può inventare quello che si vuole a posteriori (facciamo che c’era il wi-fi pancronico o il densomorfismo logistico), ma inevitabilmente il lettore avverte che quello non è il personaggio che amava ma una sua versione appiattita.

Ho preso in esame questo dettaglio ma avrei potuto prenderne altri e la disamina non sarebbe cambiata granché. L’impressione generale è quella di un Pk poco studiato e terribilmente semplificato. Gagnor ha ragione quando dice di voler cercare il suo stile, di non volersi limitare ad un’emulazione del lavoro di Sisti e Artibani, e trovo giusto anche che Pk si lasci alle spalle i vecchi archi, per avventurarsi in ambiti nuovi (a patto però di saldare del tutto i vecchi debiti narrativi, e Xadhoom ne ha ancora uno bello salato da riscuotere…). Trovo però che ci sia modo di esprimere il proprio stile pur rispettando i principi della serie che si sta proseguendo. Ai tempi di PKNA è esattamente quello che è successo. Sisti, Artibani, Faraci, Enna che oggi riteniamo parte del dna della serie, erano autori diversi con voci, idee e poetiche molto diverse. Lo stesso vale per gli altri: Macchetto, Cordara, Ambrosio. Eppure, pur mantenendo i loro stili, tutti riuscivano a portare avanti un prodotto discretamente omogeneo.

Ma a prescindere da tutto questo… funziona?

Mitico Thanos!

Questa è probabilmente la domanda da porsi per capire se il prodotto in sé, al netto delle sue enormi differenze con quanto pubblicato in precedenza, ha comunque un suo senso. Tante prosecuzioni “eretiche” hanno dimostrato di avere comunque una loro bellezza, di essere in grado di lasciare qualcosa al fruitore che non vuole farsi distrarre dal passato. Ieri notte, fresco fresco di acquisto del secondo cartonato della serie, ho provato ad immergermi nella lettura, sposando il punto di vista di un lettore vergine. Dopotutto ci avevo speso un deca, cercare di godermelo mi sembrava il minimo.

Ecco, il problema grosso è che ci ho capito poco. Era già successo con l’albo precedente, anche a causa dei disegni di un Lavoradori poco ispirato, ma qui ho avuto serie difficoltà di comprensione degli eventi. Il tratto di Vian ci regala dei buoni paperi, ma buona parte della vicenda è un inseguimento action in cui le immagini non risultano abbastanza leggibili da comunicare l’accaduto. Per riuscire a capire quanto stava accadendo anche questa volta ho dovuto metterci del mio, tornando più volte indietro, “legando insieme” le vignette con un po’ di immaginazione e interpretando con fatica le intenzioni dell’autore. La morte del fumetto come arte sequenziale, in pratica.

Mitico Than… again??

E un altro problema sono stati i dialoghi dei personaggi, del tutto incapaci di trasportarmi dentro la vicenda. Il nuovo cast si compone di figure piatte, stereotipate o accennate in modo troppo veloce rispetto al ruolo che poi la storia vorrebbe riservare loro. I personaggi vecchi a loro volta comunicano tra loro con superficialità e frasi fatte. In genere è proprio il linguaggio generale a risultare infantile e scarsamente ritmato. E sfiora il ridondante quando ci si trova di colpo davanti a frasi che altro non sono che vuote citazioni ad altre opere. Ci sono dei momenti però in cui ci si ricorda dei toni epici e profondi del Pk originale e si cerca di raggiungerli con qualche didascalia strategica o scambio commovente… ma l’effetto è sgraziato: il cambio di registro risulta brusco e preparato male, e i temi profondi finiscono per risultare involontariamente comici. L’effetto generale è quello di un minestrone di citazioni, linguaggi e influenze esterne, buttati dentro un calderone ribollente, in una continua dissonanza di sapori.

Tiriamo le somme

forse per capire l’azione serve il moviolone…

Alla fine non mi sono divertito. Come lettore adulto di lungo corso non ho trovato nel Pk di Gagnor una valida prosecuzione del discorso iniziato nel 1996, ma una sua distorsione, incompatibile nell’approccio e confuso nella resa. Nemmeno nei panni del lettore semplice posso articolare un giudizio “di pancia” positivo. La storia è caotica e poco originale, i personaggi sono vuoti e non mi sono sentito coinvolto da una lettura in cui ero chiamato ad aggiungere in prima persona le parti mancanti.

Per quel che mi riguarda il contenitore scelto, quello del Topolino Fuoriserie, venduto come albo cartonato da dieci euro è ok. Mi sembra un compromesso valido, in grado di restituire alla serie una sua indipendenza e unicità. Non costa poco, ma spesso spendiamo molto di più al bar o al pub, quindi ben venga farlo per un fumetto elegante. La cartonatura “giustifica” il costo e allo stesso tempo non crea problemi di stipaggio in libreria come le De Luxe. Ottima sia l’idea di riconcepire la serie sul modello delle “run” americane, dando quindi il controllo di un arco a un singolo autore, e appoggio chiaramente l’idea di aprire archi nuovi slegati dalla vecchia mitologia, magari uscendo dai soliti schemi evroniani. Perché PK non è superpaperino con le armi laser e gli alieni e non c’è cosa più sbagliata del concepirlo come una semplice caricatura del fumetto supereroistico americano. E’ un linguaggio, è un modo di concepire la narrazione. Per questo ritengo che, se si vuole che PK continui, vada rivisto completamente l’approccio e il tipo di narrazione, altrimenti c’è il rischio di rendere nuovamente vera la profezia che vorrebbe Pk come il Medical Dimension del fumetto Disney italiano.

daje!