Pk – Il Marchio di Moldrock

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Il popolo contro Angrybani

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Recensire Pk è un bel casino al giorno d’oggigiorno, signora mia. Non che parlare del resto del fumetto Disney in generale sia facile, eh. E’ davvero un campo minato che richiede mille equilibrismi, attenzioni, precauzioni. Le storie vanno messe in prospettiva, vanno individuate le correnti, gli approcci degli autori, le finalità del giornale per il quale scrivono. Non tutto è buono, non tutto è bello e tocca fare distinzioni. E spesso le cose non vanno per il verso giusto, perché quando l’oggetto della tua osservazione è vivo, vegeto, ti legge, lo conosci, reagisce e tira su polveroni il recensore si inibisce. O diventa polemico. Oppure – cosa peggiore – mellifluo e servile. E così muore la critica, sotto scroscianti applausi.

Ma Pk è ancor più delicato. Perché non è un fumetto Disney come gli altri, ma l’unico ad avere una storia che travalica la sua attuale collocazione editoriale. Non prendiamoci in giro, con PK è tutto diverso. E io che ho fondato la mia intera attività web partendo proprio da lì, l’ho sperimentato sulla mia pelle. Non andrebbe mai dimenticata la portata del fenomeno Pk, quello che ha significato in termini qualitativi, ed “evolutivi” per il fumetto Disney, ciò che ha generato in termini “sociali” e la cicatrice piena di pus lasciata nel 2002 quando la serie venne troncata. Solo così ci si può rendere conto del significato dell’impresa condotta da Artibani e Pastrovicchio nel 2014, quando scodellarono questo revival.

Ma quando la posta in gioco è alta, il rumore aumenta. E’ così negli ultimi giorni, mi sono visto spettatore di un putiferio. Da un lato ho letto svariate critiche di lettori insoddisfatti dall’ultima storia, Il Marchio di Moldrock. Le ho lette sia sul forum che su Pkers (il gruppo Facebook + Telegram che il Sollazzo dedica al vecchio mantello), e le ho trovate esagerate. Dall’altro ho letto le reazioni s-spavalde (?) di Artibani su facebook, e mammaiuto. Mi sono sentito preso nel mezzo, e in dovere di ascoltare e soppesare le ragioni di tutti quanti. Ecco quindi il motivo per cui state leggendo questo pezzo così spiccatamente cerchiobottista e democristiano: voglio provare a trovare quella via di mezzo tra la prospettiva del lettore incazzoso e quella dell’autore incazzoso.

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Conosco bene i Pkers, e in genere sono lettori esigenti. Non raccontiamocela: la maggior parte di loro amano PK perché costituisce un’alternativa al fumetto Disney tradizionale, che a loro non piace o semplicemente sta stretto. I più illuminati fra questi trovano in Pk semplicemente un’ottima declinazione del fumetto Disney di qualità, ma sono una minoranza. Al grosso dei Pkers interessa PK e basta, lo giudicano come opera a sé e non hanno voglia di fare sconti, di considerare le sfumature del processo produttivo, di perdonare il mancato gradimento di una storia in un’ottica editoriale più ampia. Questo approccio ha aspetti negativi: scarsa capacità di rapportarsi con l’addetto ai lavori, ottusità, poca prospettiva. Ma anche positivi: sono giudizi di pancia, assoluti, e quindi anche più puri e meno viziati dai compromessi.

Conosco anche Artibani, personalmente. Non fatevi ingannare dal circo che imbastisce ogni giorno su facebook, dalle palle del maiale, dal minchie umane, e dalle sparate assortite. E’ fumantino, sì, ma il 90% delle volte è solo facciata. Alla base c’è un uomo che fa il suo lavoro con coscienza, in un settore in cui non è sempre facile riuscirci. Anzi diciamo pure che si fa un mazzo così per portare avanti un’idea di fumetto Disney organica, omogenea, qualitativa da molti anni ormai. E se ti fai un mazzo così forse è perché ci credi parecchio, e se ci credi parecchio ti girano il doppio quando incontri difficoltà, e quindi magari reagisci male.

Recensione democristiana

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Ma vi avevo promesso un bel pezzo cerchiobottista, no? E allora ecco la mia opinione su Il Marchio di Moldrock, quinta storia “ufficiale” della terza serie di PK, la cosiddetta PKNE. Non posso dire di averla sgradita, dato che costituisce anche questa volta un altro bel pezzettone di ottimo fumetto Disney, ben scritto e mirabilmente illustrato da quel grand’uomo del Pastro. Tuttavia trovo sia vero che rispetto alle precedenti prove artibaniche questa sia un po’ sotto.

Ma vediamo una per una le principali critiche lette, così vediamo se appoggiarle o smontarle:

Ci sono le incongruenze!! Sì ce ne sono. La cosa di Pk che prima vuole ricreare Trauma e poi va in cerca di quello vero è difatto un piccolo buco, come lo è anche la cosa dell’astronave costruita all’improvviso. E’ tutto perfettamente motivabile, spiegabile, ma rimangono imperfezioni. Non è manco la prima volta che se ne trovano in una storia di Artibani, e in generale Pk ne è sempre stato pieno. Ma i blooper sono una cosa strana: sono oggettivamente dei difetti, ma non sono gravi. E’ roba che sfugge, nella testa dell’autore ma anche in quella del lettore. Io tendo a non farci caso, non dò loro importanza, non mi rovinano niente. Anche perché basta pensarci mezzo secondo e la toppa salta fuori.

Che brutti dialoghi!! E’ stato rilevato che le strutture sintattiche artibaniane stanno iniziando a ripetersi. E’ innegabile che col tempo qualsiasi autore tenda a “flanderizzare” il proprio stile, accentuando le proprie caratteristiche. E così lo stile si fa stilema. E’ abbastanza normale vederlo succedere, e credo che nessuno ne sia realmente immune. A volte il processo è più lento, altre volte ci si casca in tenera età e si diventa lo stereotipo di sé stessi, prima del tempo. Secondo me Artibani non è nemmeno vicino al livello di guardia, ed è dunque ben lungi dal risultare bollito. Le caratteristiche della sua scrittura ci sono ben note, e ormai sono riconoscibili, e forse questo influenza la lettura. Ad alcuni questo ha spezzato la sospensione d’incredulità, non nel mio caso. E’ vero che ho trovato gli scambi fra personaggi un po’ meno ispirati e spontanei rispetto alle precedenti storie, ma meno buono è diverso da cattivo.

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Mannaggia a Moldrock!! Questo povero Cristo è apparso in due storie ed è diventato subito il bersaglio dei meme più buffi del fandom disneyano. Ce ne sono a frotte e fanno tutti ridere. Alla base del fenomeno c’è il desiderio di sfottere la svolta hollywoodiana di PKNE. Per quel che mi riguarda, sono il primo a dire che il punto forte di Pk non sono mai state realmente le mazzate, i muscolazzi, il bicipite, il trapezio, Michael Bay e i guerrieroni barbarici. Il bello stava altrove, nella profondità dei dialoghi e nella complessità dei concetti. Pk è un fumetto sottile e ritenerlo la versione Disney di uno shonen significa sminuirlo. Ma questo lo sa anche Artibani, che in effetti ha solo “usato” Moldrock, girandoci attorno per svelarci tutt’altra destinazione. Nel giro di un paio di storie abbiamo visto questo bellicoso dittatore fare più chiasso che effettivi danni, facendosi puntualmente fregare dalle manovre diplomatiche di Paperino e Everett, fino ad esserne ammansito. E a me questo è piaciuto perché regala al personaggio una dimensione interessante, svelandoci che dopotutto ogni tiranno è solo un politico scadente, “vittima” di un codice etico ormai sorpassato.

Troppo Veloce!! E’ stato lamentato un certo effetto accozzaglia: troppe situazioni e personaggi buttati lì di fretta e senza reale motivazione. Trauma che è puro fanservice e non serve a molto, Nebula verde che è una trollata fine a sé stessa, le dinamiche dell’esercito poco approfondite, lo sballottare Pk di qua e di là, etc. Quello che farei notare è che Artibani sceneggia PKNE in modo da dare una sorta di autonomia ad ognuna delle quattro parti che compongono le sue storie, e quindi è facile trovarsi di fronte ad una girandola di situazioni e a un cast in continua crescita. Questo ha dei contro, ovvero l’effetto accozzaglia di cui sopra, ma ha anche dei vantaggi innegabili: sono storie ricche le sue, piene di spunti e di varietà. Non rimanere troppo in uno stesso posto ma cambiare scenario ogni 40 pagine riduce la monotonia, e ne beneficeranno le future riletture della storia, una volta riunita in volume. C’è però una cosa che non mi è andata giù e che imputo proprio al mood frenetico: il ricongiungimento con Uno, assolutamente non all’altezza di quello struggente addio sceneggiato dallo stesso Artibani quasi vent’anni fa. Se c’è una cosa di cui mi sono accorto negli anni è che a rimanerti dentro sono più le parole e le scene sentimentali, piuttosto che gli esoscheletri, le esplosioni e le tamarrate. Due zuffe in meno e qualche tavola in più per gestire i sentimenti di Paperino di fronte ad un amico che credeva “morto” da anni non avrebbero fatto male. Eh. Oh.

Ma tutto questo precipita nell’insignificanza di fronte alla questione Pk2.

La questione PK2

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Vedete, all’inizio dell’estate 2002 successe una cosa molto brutta. Non mi riferisco unicamente alla famigerata interruzione della saga, alla sua sostituzione con un reboot rivolto ad un basso target o al decennio di iato che seguì. Mi riferisco al fatto che tutte queste sfighe insieme finirono per soffocare la percezione di Pk come di un’opera “narrativa”. Il pastrocchio generale causato dal reboot creò una confusione forte, fortissima sia tra i lettori che tra gli addetti ai lavori, facendo sbiadire la memoria di ciò che aveva reso la saga tanto innovativa: il fatto che volesse narrare una storia. Non era una cosa comune nel fumetto Disney, e all’epoca i concetti di continuity e di trama orizzontale erano ancora poco diffusi. E così nel sentire popolare Pk divenne semplicemente “la versione futuristica di Paperinik che combatte gli alieni”. Non una serie, non una storia, non una saga. Ma un’immagine banale.

Cosa ancora peggiore, la serie era rimasta incompleta, facendo di Pk un fumetto monco, e quindi difficilmente riproponibile nella sua interezza. Pk2 aveva infatti messo in moto degli eventi non compatibili con lo scenario descritto fin lì dalle storie ambientate nel futuro, e gli ultimi numeri prima della chiusura non solo non erano riusciti a riaggiustare lo status quo, ma avevano spostato l’attenzione verso Serifa e la società matriarcale coroniana, lasciando intendere che l’endgame della serie sarebbe stato proprio quello. Era stato iniziato un discorso ed era drammaticamente rimasto a metà, guastando così in modo irreparabile la struttura generale della saga. L’opera Pk non era più una storia in grado di reggersi sulle sue gambe, né una saga compatta e compiuta da poter tramandare. Per anni provai infatti a consigliare in giro quello che ritenevo un fumetto Disney fondamentale, finendo immancabilmente per scontrarmi con gli effetti negativi del suo finale. La gente si sente appagata se gli racconti una storia con un capo e una coda, e non ama investire il proprio tempo in un percorso che si conclude con un moncherino. Pk non era morto in pace, era diventato uno spettro, un ricordo controverso da nascondere sotto il lenzuolo della memoria.

Al termine de Il Marchio di Moldrock vengono date alcune importanti informazioni sulla situazione politica di Corona e sul disastroso esito del ricongiungimento familiare dei Ducklair, lasciando intendere che sarà proprio questo il tema dell’ultima storia della run artibaniana. Inoltre Uno e Pk si ritrovano, mentre Everett torna a Dhasam Bul, ripristinando quindi le condizioni necessarie per eliminare le incongruenze del passato. Moldrock stesso, viene fatto intendere, avrà un ruolo in quello che accadrà, restituendo quindi organicità all’affresco generale, sempre meno scollegato. Da facebook, infine, Artibani conferma che nel 2018 “Juniper Ducklair avrà grandi progetti per voi”. Non c’è da stupirsi, perché dopotutto gli indizi c’erano: la direzione di Artibani è sempre stata quella di ricollegarsi all’arco narrativo di Corona, per togliere di mezzo quel fastidioso moncherino. Certo, toccava fare “il giro lungo” per non alienare i nuovi lettori. Ma ora i giochi sono fatti, e ciò che prima era solo suggerito, ora è esplicito.

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Non che questo sia stato apprezzato a sufficienza. Ho avuto la sfortuna di leggere commenti di lettori che, delusi dall’andamento generale del ciclo di Moldrock, sono arrivati ad affermare che era meglio concludere tutto con PK2 #18. E questo mi ha lasciato sconcertato. L’arco di Moldrock potrà anche non piacere ma, nell’economia generale della saga, queste storie sono necessarie. In loro assenza Pk resterebbe quello che era: un incompiuto. Oltre a sembrarmi decisamente irreale arrivare a preferire un moncone certo ad una conclusione (forse) imperfetta, noto che a mancare in molti lettori è proprio la cultura della buona narrazione. Dare struttura, organicità, simmetria, chiudere le questioni aperte, avere una prospettiva d’insieme, tutte cose che Artibani tra una difficoltà e l’altra dimostra di voler fare, con impegno e serietà. E non era certo tenuto a farlo, avrebbe potuto comodamente dedicarsi ad altro, lasciandosi le storyline scomode alle spalle, trattandole come cicatrici fisiologiche da fumetto seriale americano. Sarebbe stato più semplice, più ruffiano, più appagante sul breve termine. E sicuramente più sbagliato. Ma ci vogliono le palle per scrivere un fumetto seriale all’interno del Topolino settimanale, assumendosi la responsabilità di una tale anomalia. Artibani le ha avute, e mi sento di stare dalla sua parte. Dalla parte di chi non lascia le cose a metà.

Succede anche a teatro, dopotutto. Un attore può fare una gaffe in pieno spettacolo, scordando una battuta, incespicando o avendo un attacco di ridarella. Un altro attore può scegliere di ignorare la gaffe del collega, portando avanti lo spettacolo come se non fosse successo nulla. Ma se è un bravo attore non farà così, ma tenterà di inglobare la gaffe dell’amico all’interno di una scenetta, con un po’ di sana improvvisazione, dissimulando l’incidente e preservando la sospensione d’incredulità degli spettatori. Ringrazio moltissimo Artibani per aver ragionato da bravo attore e aver pensato a preservare l’affresco generale. Il Marchio di Moldrock, che possa piacere di più o di meno, altro non è che un tassello di un qualcosa di più importante, di più bello e di più grande. Un’epopea che posso tornare a consigliare a cuor leggero.

Grazie, Francesco.

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