La Svolta Rossa di Emeryville

Tutto comincia con una madre iperprotettiva che immagina di divorare suo figlio, sottoforma di raviolo. Ecco, che Domee Shi fosse una regista con molto da dire ce ne potevamo accorgere già lì. Correva l’anno 2018 e il corto Bao veniva proiettato nelle sale in apertura de Gli Incredibili 2, ed era a dir poco geniale: commovente, ricco di contenuto, stiloso e con un umorismo pungente e arguto.

Ora che Domee ha diretto il suo primo lungometraggio, Turning Red, il 25° della Pixar, ci ritroviamo in mano una diversa applicazione di quello stesso spunto. Il film lo dice piuttosto chiaramente: la maledizione ereditaria che colpisce le adolescenti della famiglia della protagonista altro non è che una trasfigurazione della pubertà, con tanto di menarca, pulsioni e ormoni fuori controllo. E giocando su questo parallelismo il film regge benissimo per tutta la sua durata, senza cali e mantenendo un ritmo incalzante. Interessante è anche l’ambientazione, il 2002, che sembrerebbe preludere ad una nuova epoca nostalgia dopo gli 80s e i 90s, che francamente ormai avevano proprio stancato. Solo che in questo caso non si tratta di una ruffianata, ma semplicemente dell’epoca in cui è stata piccola la stessa regista, che ha voluto dare al film un sapore autobiografico. Elementi come la boyband fittizia e il tamagotchi vengono perfettamente integrati alla trama e vengono tirati in ballo con grande intelligenza e ironia.

C’è contenuto quindi, ma ad accompagnare questo contenuto, troviamo stavolta una messinscena di gran lunga superiore a quanto fatto da Pixar negli ultimi anni. I personaggi principali di Red non sono i soliti pupazzetti geometrici e stilizzati. Pur mantenendo una loro semplicità, mostrano una gamma di espressioni e uno stile recitativo tutt’altro che generico. Anzi, la Shi è ispirata come non mai e butta dentro con maestria ogni influsso assorbito in passato: si respira molta estetica anime, e in particolare quella de I Miei Vicini Yamada di Isao Takahata o addirittura Ranma. E infatti personaggi come l’amichetta coreana sembrano la puntuale trasposizione in 3d di molte espressioni viste finora solo nei manga. Insomma, non si ha paura di osare, di fare scelte audaci e mettere su schermo immagini stimolanti. E il bello è che tutto questo estro creativo non sa di sfoggio ma aiuta a immergere lo spettatore nella storia, a farlo empatizzare con i personaggi e in pratica diventa un potente strumento narrativo.

Visto in successione con Luca, e in parte anche con Soul, questo Red sembrerebbe volerci mostrare una nuova Pixar, con un percorso artistico tutto suo. Ceduta ai WDAS l’esclusiva sui sottomondi, sembra che si stia dedicando a storie più “piccole” e graziose, con setting urbano, piglio autobiografico e uno stile di volta in volta tarato su quello del regista di turno. Una Pixar un pelo più autoriale di quanto sia stata in passato, con un’anima più indie e un po’ il ruolo di Ghibli d’occidente. Non che questo possa far più di tanto bene all’immagine dei WDAS legata invece al mainstream e ad una lunga serie di antichi errori comunicativi da parte del marketing, ma se non altro restituirebbe ai due studi personalità distinte.

Ma queste sono solo proiezioni, traballanti per natura. Perché chiaramente basterebbe anche solo l’uscita di un Lightyear per mettere in discussione la ritrovata identità della Lampada, e trasformare questa “svolta etnica” in una semplice parentesi nella storia di Emeryville.