Visioni fuori canone

A due anni dal varo della piattaforma, sembra che Disney+ sia diventata una sede prediletta per alzare l’asticella della creatività e testare formati inediti e sperimentali. Mentre Marvel rilascia col contagocce gli episodi di “What if…”, Star Wars dà il proprio contributo di audacia con “Visions”, nove cortometraggi one shot prodotti da sette studi giapponesi che esplorano la Galassia lontana lontana sfruttando appieno il potenziale dell’animazione e della cultura nipponica.

Il risultato è molto felice sia in termini di resa estetica, sia per la varietà di spunti. Star Wars ha una lunga storia d’amore con il Giappone che risale direttamente alle origini del franchise, dalla fascinazione di George Lucas per il cinema di Akira Kurosawa (che ritorna prepotente nel primo episodio, “Il duello”) alle stesse religioni Jedi e Sith, che riprendono molti elementi della tradizione spirituale orientale e delle arti di combattimento dei samurai. A proposito di samurai, è difficile non notare la centralità delle spade laser nella grande maggioranza degli episodi. L’iconica arma è forse la vera protagonista di “Visions”: il legame con gli ordini Jedi e Sith e la relativa (problematica) eredità, la potenza nella lotta, la connessione con la Forza, il traguardo di un percorso di iniziazione, sono temi che vengono sviscerati con evidente passione.

A livello di trama gli episodi mantengono una qualità alta, con alcune cadute che tuttavia è facile perdonare: gli autori si sono inseriti con grande naturalezza nello spirito primigenio di Star Wars, che include tanto l’epicità, la coralità, l’intensità emotiva (alcuni momenti sono davvero toccanti) quanto… il trash. Star Wars senza una spensierata dose di trash sarebbe irriconoscibile, è nel suo DNA fin dal 1977, e anche su questo frangente ci si troverà accontentati, da alcuni peccati veniali a momenti sinceramente cringe (il terzo episodio è forse quanto di più tamarro sia mai stato partorito dal franchise) che comunque non intaccano a fondo la godibilità dell’opera.

Rimane tuttavia un dubbio difficile da nascondere, a maggior ragione a fronte dell’ottima qualità dell’opera: perché lasciarla fuori canone? Bisogna per forza produrre nuove “leggende” per trovare libertà creativa?

A chi scrive, nessuno dei nove episodi – a parte forse il terzo che è talmente fuori misura nel complesso da minare la stessa sospensione di incredulità – sembra giustificare la non canonicità. La Galassia è grande e le storie raccontate in “Visions” si svolgono in luoghi e periodi in prevalenza lontani dal centro nevralgico della saga (da molto prima di Ep. I ad un ipotetico post Ep. IX). Anzi, molti spunti sarebbero preziosi per arricchire il worldbuilding di un universo narrativo a cui l’autoreferenzialità creativa e stilistica non fa bene (si vedano ad esempio alcune debolezze di “The Bad Batch”) e che da un progetto del genere può trarre solo una sana boccata d’aria. L’annuncio di un romanzo su Ronin, il protagonista del primo episodio, lascia ancora più perplessi sulla volontà di investire così tanto in un progetto non canonico, rischiando di portare confusione quando l’idea di canone non solo può reggere, ma si può fondare sulla convivenza di tante storyline diverse in altrettante epoche.

Il concetto stesso di canone coeso si sta forse allentando? A ognuno il suo (head) canon? Oppure si cerca di stare con un piede in due scarpe, mettendo ogni azzardo creativo al di fuori del canone per sperimentare senza correre troppi rischi? Ad ogni modo, non è un segno di buona salute dover per forza decanonizzare per poter osare. Ma forse è troppo presto per valutare. Per ora, ci godiamo un ottimo esperimento, sperando che non rimanga lettera morta e che sia un preludio di maggiore coraggio creativo e autoriale.