La Nintendo dell’Era Famicom (1983 – 1989)

Guardare al passato di Nintendo è essenziale per comprenderne il presente. L’azienda di Kyoto inserisce sempre più spesso nei suoi giochi strizzate d’occhio ai vecchi classici – grazie alla città di New Donk o il titanico enciclopedismo di Smash Bros, i vecchi giochi Nintendo sono più vivi che mai. Per non parlare delle console mini.

Ma i giochi Nintendo del presente sono in costante dialogo con quelli del passato anche ad un livello più profondo. Come abbiamo visto, i giovani director come Hidemaro Fujibayashi (Zelda) lavorano con producer, come Eiji Aonuma, che si sono formati a stretto contatto con i Maestri Miyamoto, Tezuka e Sakamoto. Il DNA di Nintendo è una tradizione videoludica che si tramanda da ormai tre generazioni e che si respira costantemente nei nuovi giochi. Basti pensare che per Nintendo il punto di riferimento di Breath of the Wild, uno dei videogiochi più significativi degli ultimi 20 anni, non è stato uno Skyrim (per quanto sicuramente abbia avuto la sua influenza), ma il primo episodio di Zelda per Famicom.

Con questo e i prossimi articoli, speriamo quindi di offrirvi una panoramica della storia dei team interni di Nintendo, guardando ai software e gli hardware più significativi rilasciati dall’azienda, i designer che via via si sono succeduti alla cabina di regia e le soluzioni di gameplay adottate, evolute, rifiutate, stravolte e attualizzate. Se nel primo articolo di Nintendo Historia abbia guardato all’attuale “cuore” di Nintendo, oggi iniziamo a studiarne il DNA, partendo dal 1983. Nintendo aveva già rilasciato videogiochi prima di quella data, ma è il 1983 il vero “anno 0” della storia di Nintendo – il momento in cui la casa di Kyoto trasforma quello dei videogiochi nel suo business principale, rilasciando un prodotto che cambierà la storia dell’intero settore.

Una precisazione per il lettore: in questo ciclo di articoli useremo un punto di vista giapponese. Con l’esclusione di pochi giochi prodotti in o per l’Occidente, le date dei giochi riportate sono quelle giapponesi e, ad esempio, parleremo di Famicom piuttosto che di NES. Il motivo è facilmente intuibile: i team Nintendo sono localizzati in Giappone e la gran parte dei loro prodotti si è sempre rivolta prima di tutto al mercato giapponese. Per facilitare la comprensione, comunque, utilizzeremo i titoli occidentali dei vari giochi, dopo aver indicato almeno una volta il titolo originale.

Prima del Famicom

All’inizio degli anni ’80 EPD non esisteva, e non esisteva neppure EAD. L’azienda di Hiroshi Yamauchi era divisa in tre team di Research & Development: R&D1, guidato da Gunpei Yokoi, geniale inventore dei giochi tascabili Game & Watch e di molti dei giocattoli con cui Nintendo era entrata nel mondo dell’intrattenimento, R&D2, affidato all’ingegnere Masayuki Uemura e specializzato nella produzione arcade, e R&D3, un team formato – scrive David Sheff in Game Over – da otaku e appassionati di tecnologia, dedito soprattutto alla ricerca in campo hardware sotto la direzione di Genyo Takeda. Al di là dei tre producer citati, questi team avevano una composizione “fluida”: non era raro che parte dello staff di un gioco per Game & Watch lavorasse poi a un prodotto arcade. L’idea di Yamauchi era favorire la competizione all’interno della sua azienda, ottenendo così prodotti dalla qualità sempre maggiore. Nei fatti, tale competizione si sviluppò soprattutto fra R&D1 e R&D2, con il team di Takeda impegnato ad assistere gli altri negli aspetti più strettamente “tecnici” e occupandosi raramente di sviluppare videogiochi in prima persona (ma con sporadiche eccezioni, anche notevoli, come Punch-Out!!).

Nel 1981 R&D1 stava assumendo sempre più importanza all’interno dell’azienda, grazie al successo dei Game & Watch, a scapito della squadra di Uemura, che rimase con sole tre persone. Su suggerimento di Yamauchi, R&D2 iniziò a sviluppare una console domestica con lo scopo di portare il mega successo Donkey Kong nelle case dei giocatori. R&D2 non era nuova a progettare dispositivi da collegare alla TV (nel 1977 era uscita la prima macchina della serie Color TV-Game) e conosceva bene le specifiche del cabinato di Donkey Kong: se il gioco era stato pensato dal giovane Shigeru Miyamoto per R&D1, la componente hardware era invece farina del sacco di R&D2.

Piccoli giochi per tutta la famiglia

Il 15 luglio 1983 fu così lanciato in Giappone il Family Computer, colloquialmente detto Famicom, che avrebbe debuttato nel mercato nordamericano soltanto due anni dopo come Nintendo Entertainment System, o NES. Con il Famicom, nasce in Giappone un nuovo modo di intendere i videogiochi, non più rivolto al pubblico super-fanatico dei Game Center, che nel giro di qualche anno avrebbe creato una vera e propria sub-cultura a cui si sarebbero rivolte SEGA e SNK, né agli appassionati di tecnologia, quegli otaku smanettoni che avevano dato vita ad aziende come Nihon Falcom e guardavano con ammirazione alla nascente industria occidentale di giochi per computer. Nintendo non era un’azienda d’elettronica d’avanguardia, né aveva una particolare affinità con i cabinati arcade: i giocattolai di Nintendo decisero allora di rivolgersi a un terzo pubblico, ampio ed eterogeneo – l’intera famiglia.

Il nome Family Computer – una vera e propria dichiarazione d’intenti fu scelto dallo stesso Uemura. Ho inventato io quel nome. Non avevamo un dipartimento marketing, per cui gli sviluppatori davano i nomi ai propri progetti. Termini come “personal computer” e “home computer” apparivano spesso nei media all’epoca, e un giorno notai che “family” non era ancora stato usato. Evocava questa immagine di famiglie che si siedevano sul kotatsu e giocavano insieme, per cui ho pensato che Family Computer avrebbe funzionato bene.

Alle conversioni di Donkey Kong e Mario Bros. si affiancarono semplici giochi sportivi come Tennis o Baseball, tutti sviluppati dalla stessa R&D2 con l’ausilio di aziende esterne esperte di programmazione, come SRD, Intelligent Systems, PAX Softnica, TOSE o HAL Laboratory. Non è corretto parlare di “simulatori”: in Tennis le regole dello sport sono ridotte ai minimi termini e manca la volontà (e, probabilmente, la competenza tecnica) di offrire una fisica realistica. La magia di quei giochi si reggeva sulla loro immediatezza: poter giocare a qualcosa simile al Tennis su televisore con la mamma e il fratellino. Qualcosa possibile solo in Giappone, solo all’inizio degli anni ’80? Non proprio – quasi venticinque anni dopo, Wii Sports avrebbe riproposto la stessa strategia (e non solo: le mappe di Wii Golf sono le stesse del Golf per Famicom).

Un anno più tardi il team di Yokoi rilasciò Wild Gunman e Duck Hunt, prodotti più strettamente ludici che videoludici controllati interamente tramite la Pistola Nintendo (o Zapper, nel mercato occidentale), ideali versioni elettroniche di vecchi giocattoli Nintendo. Contemporaneamente, il giovane game designer Shigeru Miyamoto, sfruttando l’ampia libertà lasciata all’interno dell’azienda, formò un piccolo gruppo noto come Kurieitibu Ka (Dipartimento Creativo) assieme al neoassunto Takashi Tezuka e il programmatore dell’azienda SRD Toshihiko Nakago, in forza presso R&D2. Tempo dopo, Miyamoto, Tezuka e Nakago assunsero la nomea di “Uomini d’oro di Nintendo” e SRD divenne il braccio programmatore del team di Miyamoto.

Ma di preciso, quanta libertà e che ruolo avevano i programmatori delle aziende che, come SRD, assistevano Nintendo? Tanta, ci svela in un’intervista del 1999 Satoru Iwata, che agli inizi dell’era Famicom lavorava come programmatore in HAL. All’epoca, i programmatori avevano un ampio margine di libertà. L’idea di “director” non esisteva davvero, e anche le documentazioni erano abbastanza crude e vaghe. Proprio al programmatore spettavano parecchie decisioni sul contenuto [del gioco], ipotizzando come i giocatori avrebbe reagito a questa o quell’idea. Poi mostravamo cosa avevamo realizzato a Nintendo, che ci dava il loro feedback, e poi tornavamo indietro e rivedevamo [il gioco]. La maggior parte dei nostri sviluppi seguivano questo schema. […] [Nintendo] ci dava un prospetto molto generico, e qualche concept art. Noi poi prendevamo decisioni più dettagliate su come dar vita a questo materiale nel gioco.

Quando Mario divenne Super

Nel 1984 il buon successo riscontrato da Devil World ed Excitebike, i primi frutti del “Dipartimento Creativo”, convinsero il Presidente Yamauchi a ufficializzare l’esistenza di un team attorno alla figura di Miyamoto: nel pieno dello sviluppo di Super Mario Bros. (e di un gioco noto come Adventure Mario) nacque così R&D4. Forse per la giovane età del pur talentuoso e ambizioso Miyamoto, la direzione del neonato dipartimento fu affidata a Hiroshi Ikeda, già regista di diversi lungometraggi animati presso Toei, che si fregiava del titolo di “Walt Disney d’Oriente”. Lo stesso titolo che, oggi, associamo allo Studio Ghibli: i lungometraggi diretti da Ikeda (come Dōbutsu takarajima – noto in Italia come Gli allegri pirati dell’isola del tesoro – o Soratobu Yūreisen) furono anche i primi a cui collaborò Hayao Miyazaki.

Non sappiamo precisamente in che modo Ikeda divenne “il capo di Miyamoto-san” (come ricorda l’ex Presidente Iwata). Ha, forse, giocato un ruolo determinato il forte amore di Miyamoto per il mondo dell’animazione. Proprio lui, del resto, aveva già avuto contatti con Toei per lo sviluppo dell’arcade Punch-Out!!: fino a quel punto – ricorda Miyamoto – avevo disegnato tutto da solo, ma mi spaventai al momento di disegnare i grandi pugili di Punch-Out!! Pensai che non sarei mai stato in grado con le mie capacità di disegno. Ikeda, comunque, non fu il solo uomo di Toei ad unirsi a Nintendo: lo seguì presto anche Yōichi Kotabe (direttore dell’animazione – fra gli altri – di Heidi), che si sarebbe occupato del character design dei giochi della futura EAD. Amante di un’animazione fluida, Kotabe ricorda che la prima volta che vidi tutti i movimenti che Mario eseguiva in Super Mario Bros., pensai che i videogiochi stavano facendo quello che l’iniziale industria dell’animazione stava dimenticando. La distanza fra i videogiochi di Miyamoto e il mondo dell’animazione di qualità sembra dunque molto ridotta. “Nintendo è proprio nelle mani della venerabile élite di Toei Animation!”, commenterà anni dopo l’allora Presidente Iwata.

È difficile riassumere in poche righe perché Super Mario Bros. sia stato un gioco epocale, ma ci proviamo. In primo luogo, semplicemente, controllare Mario è incredibilmente divertente. La legnosità dei primi giochi Famicom come Ice Climber lascia spazio a un personaggio reattivo: attraverso la durata della pressione del tasto A, il giocatore è in controllo dell’altezza del salto di Mario, di cui può anche modificare la direzione a mezz’aria. In secondo luogo il gioco sancisce il definitivo allontanamento di Nintendo dal mondo degli arcade. In Super Mario Bros. è presente un punteggio, ma è un elemento totalmente secondario nel design del gioco (e che Miyamoto anni dopo definirà chiaramente come estraneo al suo stile): al giocatore non è richiesto giocare più e più volte lo stesso set di livelli alla ricerca del punteggio migliore, ma piuttosto il cuore dell’esperienza è l’attraversamento di ben 32 livelli. I videogiochi iniziano insomma ad avere un inizio, uno sviluppo e una conclusione, “climax” scandito dall’incredibile level design: i livelli si fanno via via sempre più difficili, introducendo al giocatore nuovi elementi o mischiandoli fra loro. Il merito è di Miyamoto e Tezuka, che con Super Mario Bros. creano effettivamente i ruoli di “director” e “level designer”. Il giocatore è anche coinvolto da un punto di vista più “narrativo”: semplicemente alternando livelli all’aperto (di giorno e, a sorpresa, di notte!), nel sottosuolo, sott’acqua o in un castello Super Mario Bros. riesce a raccontare una storia (sembrerà strano, ma Super Mario Bros. è uno dei giochi preferiti di Hideo Kojima). Due anni dopo la scommessa Famicom, Super Mario Bros. è il primo, indiscutibile, capolavoro figlio dell’approccio “videogiochi per la famiglia” dell’azienda di Kyoto e una prova della maturità in cui l’intero medium sta entrando. Eppure, servirà tempo perché alcune idee avanguardiste di Super Mario Bros. si radicalizzino – guardando ad altri classici Famicom non pubblicati da Nintendo, la fisica di Akumajō Dracula (Castlevania) o la difficoltà brutale di Makaimura (Ghosts ‘n Goblins) sono lontani dall’eleganza di Super Mario Bros. e spie di giochi sviluppati pensando ancora al mondo degli arcade.

Giochi su Dischetti

L’enorme successo di Super Mario Bros. confermò la bontà della fondazione di R&D4. Ma come la prese Uemura, a capo dell’altro dipartimento che fino a quel momento aveva attivamente supportato il Famicom? In realtà io non ero neppure al corrente dell’esistenza di Super Mario Bros. Ero completamente preso da un’infinità di altre cose. R&D2 aveva già ridotto la produzione interna di software dopo l’ingresso sulla scena Famicom dei primi sviluppatori terze parti. Con l’uscita di Super Mario Bros., R&D2 iniziò a dedicarsi quasi interamente all’hardware: nel 1986 venne rilasciato il Family Computer Disk System, un’espansione hardware per Famicom che permetteva alla console Nintendo di leggere dischetti riscrivibili simili ai floppy, ben più capienti delle cartucce. Questo caratteristico supporto (che aveva anche una mascotte, Disk-kun, o Diskettino) fu progettato da R&D3.

Terminato lo sviluppo di Super Mario Bros., i ragazzi di Miyamoto tornarono a lavorare ad Adventure Mario. Il progetto, rinominato THE HYRULE FANTASY: Zelda no Densetsu, sarebbe stato uno dei giochi di lancio del nuovo Disk System. Nel suo saggio Zelda: History of a Legendary Saga, Nicolas Courcier individua in Hydlide, RPG per computer del 1984 prodotto da T&E Soft, una delle fonti d’ispirazione del nuovo capolavoro di Miyamoto. The Legend of Zelda e Hydlide hanno molto punti in comune, ma sono forse più interessanti gli elementi per cui i giochi differiscono. Al di là degli aspetti più strettamente tecnici (Zelda gira su una macchina più performante), spicca il sistema di progressione del personaggio. Link non reca un danno maggiore ai nemici aumentando il parametro “FORZA”, ma ottenendo – ed usando – oggetti come l’arco o le bombe. Rimuovendo totalmente le statistiche, tipiche dei giochi di ruolo per computer dell’epoca, The Legend of Zelda offre un’interfaccia più pulita e un gameplay più accessibile, riuscendo a rivolgersi a un pubblico più vasto di quello, invece, di un Hydlide. Miyamoto conosce i giochi per computer come Hydlide, ne fa sua la basilare grammatica, ma ne rifiuta la sovrastruttura preferendo un approccio personale, che metta al centro il giocatore e la sua interazione con il mondo di gioco, non “mediata” da statistiche o menù. Si pensa spesso a Nintendo come a una software house “insulare”, isolata dal resto dell’industria: eppure, la sua serie più prestigiosa è nata guardando a un genere che già si stava sviluppando esternamente, poi totalmente rideclinato a Kyoto.

Con i successi di Super Mario Bros. e The Legend of Zelda, in breve tempo R&D4 divenne il principale team di sviluppo Nintendo: se l’uscita del Famicom ha costituito l’anno 0 di Nintendo come produttrice di hardware, in un certo senso l’uscita di Super Mario Bros. fu l’inizio di una nuova era della produzione software. È di questo stesso parere Kazuaki Morita, uno dei principali programmatori di R&D2 (è uno degli autori di Ice Climber), accolto in R&D4 da Miyamoto. Col senno di poi, Morita ricorda il suo lavoro per Ice Climber come un “riscaldamento” in vista dell’imponente Super Mario Bros.

L’Altra Nintendo: la Nascita di Samus

Con R&D2 e R&D3 focalizzate interamente sullo sviluppo dell’hardware (l’una delle console in sé, l’altra dei supporti d’archiviazione), ad affiancare R&D4 nello sviluppo di software rimase soltanto R&D1. Forse a causa dal declino delle vendite dei Game & Watch, Gunpei Yokoi diede al suo team il via libera allo sviluppo di giochi Famicom più complessi di Duck Hunt. Ma il contributo di Yokoi si fermò a questo beneplacito e qualche vaga idea. Era convinzione del designer dei giocattoli che “se sei in grado di disegnare, allora sei anche capace di creare un gioco”: nello sviluppo delle loro prime opere videoludiche per home console ai giovani e inesperti Yoshio Sakamoto, Toru Osawa e Hiroji Kiyotake fu lasciata totale, forse eccessiva, autonomia. Non stupisce che i giochi di R&D1 per Famicom siano caratterizzati da uno sviluppo travagliato (la modalità Balloon Trip di Balloon Fight non era prevista nei piani originali e fu aggiunta in un secondo momento, la versione giapponese di Kid Icarus fu completata tre giorni prima della data d’uscita) e, complessivamente, da un game design più acerbo dei coevi giochi R&D4, per quanto foriero di eccellenti idee.

In particolare, l’intero design di METROID fu sostanzialmente frutto di un’improvvisazione. Il progetto, chiamato inizialmente Space Hunter, fu affidato da Gunpei Yokoi a Hiroshi Kyotake e un suo collega senza particolari direttive. Ricorda Kiyotake: Non avevo la minima idea di cosa comportasse realizzare un videogioco… […] Sapevamo che prima o poi ci avrebbero dato delle indicazioni precise, una guida, quindi la situazione ci stava bene. Dieci mesi dopo l’inizio dello sviluppo, Space Hunter era sostanzialmente un gioco ad ambientazione futuristica “dove si corre e si spara”, e niente di più. A tre mesi dalla data d’uscita, Yoshio Sakamoto fu coinvolto nel progetto e cucinando in modo tanto spericolato quanto originale gli ingredienti raccolti da Kyotake diede vita alla struttura labirintica che contraddistingue la serie. Devo dire che non posso muovere alcuna critica a Kiyotake-san e al suo collega, perché erano stati catapultati direttamente nel mondo dei software per il Family Computer Disk System dal settore dei Game & Watch, chiosa Sakamoto.

Raccontare storie con 8bit

METROID uscì nel 1986 per il neonato Disk System, lo stesso anno di Hikari Shinwa: Palutena no Kagami (in Occidente Kid Icarus) e del primo episodio di The Legend of Zelda. Quale sia il migliore fra questi tre giochi è fuor di dubbio. Ma se R&D4 primeggiava nell’ideazione di gameplay accattivanti, R&D1 sapeva creare mondi ben più interessati di quelli partoriti dalla mente del giovane Miyamoto. Il Mushroom Kingdom, il medioevo di Zelda o ancora il mondo dei sogni di Doki Doki Panic (o Super Mario Bros. 2 che dir si voglia) sono ambientazioni quasi archetipiche, con lo scopo di essere semplicemente sfondo per le azioni del giocatore. Pur con tutti i limiti del caso (tecnici, e non solo), grazie a delle soluzioni grafiche e un comparto sonoro evocativi il pianeta Zebes di METROID riesce ad essere molto più inquietante dei labirinti di Zelda e lo strampalato Olimpo di Kid Icarus, fra maghi melanzana e carte di credito, dotato di un’identità più forte di quella del Regno dei Funghi del 1985.

Shigeru Miyamoto, del resto, non aveva reale interesse a raccontare storie. Quanto, piuttosto, a coinvolgere il giocatore all’interno di esperienze interattive. Per comprendere il modus operandi di Miyamoto ci affidiamo alle parole di Yoshiaki Koizumi, succeduto – come poi vedremo – a Shigeru nella guida della serie di Mario. Non vedo [“salvare la principessa”] come una storia, ma come un obiettivo. È un modo per creare una situazione. Non c’è necessariamente un crescendo e una risoluzione a un livello profondo, come si potrebbe trovare in un romanzo. È solo una situazione che motiva i giocatori. […] Così Miyamoto fornisce un obiettivo ed è questo che serve in Donkey Kong per spingere a giocare, e raggiungerlo con la giusta motivazione. Yoshio Sakamoto non è nello stesso avviso, e nei suoi giochi anzi cerca spesso questo “crescendo narrativo”, guardando anche al cinema (è un fan di Dario Argento!).

Fra il 1987 e il 1989 i due studi, R&D1 e R&D4, sono entrambi impegnati nello sviluppo di avventure grafiche: dopo il successo della versione Famicom di Portopia Renzoku Satsujin Jiken di Yuji Horii (più noto in Occidente come “papà” di Dragon Quest), uscita lo stesso anno di Super Mario Bros. e non meno influente del gioco di Mario, il mercato delle avventure grafiche era in crescita e la direzione di Nintendo decise di entrarvi. R&D4 sviluppò così Shin Onigashima e Yūyūki, entrambe ispirate a racconti tradizionali orientali. Miyamoto ha un input quasi nullo su questi due giochi, venendo accreditato come generico “supervisore”. In una intervista del 1989 espone pubblicamente dei dubbi sulla bontà del gameplay dell’intero genere, a suo dire poco interattivo in quanto basato su menù. La formula di Portopia ereditata dalle altre “avventure grafiche” giapponesi è molto diversa da quella di un occidentale Monkey Island: si tratta della formula da noi diventata popolare solo molti anni più tardi con la saga di Phoenix Wright: Ace Attorney, una formula che non mette al centro il controllo diretto del personaggio (azzardando verrebbe da dire: un po’ come Hydlide).

Yoshio Sakamoto, invece, è entusiasta di Portopia e con Toru Osawa (già ideatore di Kid Icarus) realizza i due giochi della serie Famicom Tantei Club: Kieta Kōkeisha e Ushiro ni Tatsu Shōjo. Il giocatore impersona un giovane studente, membro di un club scolastico d’investigazioni assieme alla coetanea Ayumi Tachibana. Banali casi di omicidi, come quello che muoveva la trama di Portopia, si rivelano solo la punta dell’iceberg di incredibili avventure paranormali, dal complesso intreccio inusitato per un videogioco, raccontate tanto da immagini e parole quanto attraverso la musica. Come Miyamoto si avvaleva di Koji Kondo per le musiche di Mario e Zelda (fornendogli però solo delle generiche indicazioni), durante la lavorazione del secondo Famicom Tantei R&D1 trovò il suo compositore d’eccellenza: Kenji Yamamoto. Le composizioni di Yamamoto non si limitano ad accompagnare l’azione su schermo, ma ne accentuano la drammaticità.

Mario e Link da una parte, Samus e Ayumi dall’altra; con le coppie Miyamoto-Tezuka e Sakamoto-Osawa la Nintendo dell’era Famicom porta avanti due approcci al medium videoludico l’uno complementare all’altro. I due team creano ex-novo due generi – il platform puro di Mario e il “Metroidvania” – e ne rivoluzionano altri (Zelda gli RPG, Famicom Tantei le avventure grafiche). L’approccio agonistico voluto da Hiroshi Yamauchi sembra aver portato ottimi frutti e una relativa stabilità all’interno dell’azienda. Pochi anni dopo, però, i rapporti di forza fra i due dipartimenti si sarebbero modificati radicalmente.

In questo articolo abbiamo inserito link a tanti siti, sia per invogliare il lettore ad approfondire, sia per ringraziarli (senza di essi questa panoramica sulla storia di Nintendo non sarebbe stata possibile). Un altrettanto grande ringraziamento va ai database Mobygames e The Kyoto Report, che abbiamo consultato per i credits dei giochi.  Grazie a Elia Battiston per il supporto grafico.