The Legend of More of the Same

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è uscito quattro mesi fa. Tanto mi ci è voluto per finirlo. Per finirlo BENE intendo, non superficialmente. Dove per bene non intendo solo la storia principale, ma anche un migliaio di korogu, centosessanta sacrari, un’ottantina di cartelli, un centinaio di rospettri e altro, tanto altro. Troppo altro.

E qui s’impone una riflessione.

Ricordate i voti? Record assoluto, una collezione di dieci presi ovunque, un plebiscito.

Non che non se li meriti, intendiamoci. Si tratta di Nintendo EPD, il cuore della grande N e di un gioco che ridefinisce il concetto di gameplay. Sono riusciti a prendere Breath of the Wild, mantenendone il fenotipo ma cambiandone profondamente le dinamiche. Tecnica, arte, chirurgia, genio, non so nemmeno io come chiamarla, ma so che siamo di fronte al perpetuarsi di un fenomeno artistico per quale è solo giusto togliersi il cappello. E taccio di trama, filmati e elementi narrativi assortiti, ai più alti livelli della storia Nintendo.

Questo non cambia però il fatto che hanno preso la Hyrule open world che avevo faticosamente finito di esplorare sei anni fa, l’hanno reimpacchettata con l’aggiunta di cielo e sottosuolo e me l’hanno rimessa in mano dicendomi di ricominciare daccapo. E a me questo sembra un precedente inquietante. Non tanto l’idea di uno Zelda che ricicla il mondo di gioco (peraltro già accaduto su 3DS) ma il fatto che sia proprio QUEL mondo di gioco, una Hyrule enorme che è tornata a galla ancora più enorme.

Cosa vogliamo davvero da un gioco? Che sia enorme? Ho i miei dubbi. Siamo in un’epoca in cui ci fanno credere che vogliamo il gioco enorme, in cui ci gasiamo all’idea che un open world triplichi sé stesso. Ma poi a ben guardare chi è che fruisce davvero del malloppo? Pochi pazzi. Gli altri si limitano ad un assaggio prima di stancarsene, o al massimo finiscono la trama, lasciando il resto ai completisti indefessi. Si crea quindi una spaccatura metodologica: se intendi giocarlo per bene sei un folle e soffrirai. E a me questo stona: Nintendo sin dai tempi dello SNES ha sempre puntato ad un approccio sano, proponendo dei 100% impegnativi ma fattibili e cercando di mantenere sempre una sorta di equilibrio. Questo personalmente l’ho sempre trovato educativo: il completismo non era ossessione e malattia, ma solo l’arte di approfondire per bene. Darsi, dedicarsi ad un’opera era nobile, e allenava la forma mentis alla pazienza, all’approfondimento e infine allo studio. Il completismo era pedagogico, non patologico.

Ora no. Passa un altro messaggio: c’è un sacco di brodo allungato sì, ma è solo per i matti, nessuno ti obbliga. E a me pare una paraculata. Perché queste sono pur sempre parti del gioco che ho comprato, pesano nel totale, influiscono sui ritmi e sugli equilibri, non puoi davvero far finta che non ci siano. E se non lo si fosse capito io sono uno dei pazzi, di quelli che un gioco – uno Zelda, poi – vogliono finirlo bene. Per questioni di metodo, per banale affetto oppure molto semplicemente perché è pur sempre il miglior gameplay del mondo e non me la sento di ignorarne parti a cuor leggero.

Ecco perché penso che Tears of the Kingdom sia un capolavoro E una deriva pericolosa per la serie. Se tanto mi dà tanto sarà ben difficile che da qui in poi osino presentarsi con mondi più piccoli di questo. Verrebbe visto come un passo indietro, in un momento in cui la filosofia open world ha ormai pervaso il settore. Eppure io rimango fan di quei giochi contenuti, in cui le location 3D sono simili a diorami, in cui ogni centimetro quadro virtuale è in grado di rimanere inciso nella nostra memoria.