Venerdì (ma anche prima di venerdì) è successa una cosa molto bella. Star Wars non ha generato polemiche. Ha invece unito tutti nella commozione, portandoci a contemplare un finale di stagione (e di arco narrativo?) praticamente perfetto. Il Mandaloriano cambierà molte cose, io crede, e diventerà un punto di riferimento assoluto, una lezione su come uscire da una situazione spinosa. Un know-how per la gestione e la risoluzione di un franchise radioattivo. Tento di ripercorrere per sommi capi quanto fatto fin qui, e vediamo quali sono stati gli step fondamentali per capire come si è usciti dall’empasse.
La Situazione di Partenza
Facciamo un passo indietro. Lucas crea i prequel. Sono film con problemi qua e là, generano polemiche, anche grosse. Poco prima aveva realizzato le edizioni speciali, modificando i suoi vecchi film, generando polemiche anche più grosse. Poco dopo avrebbe creato una serie animata goffa, partita male, ma senza grosse polemiche. Questo perché i più a questo punto avevano deciso di ignorare tutto.
Uniamo i puntini. Quello che emerge è un regista che più che i singoli film sta creando, con vent’anni di anticipo sulla prassi cinematografica odierna, il suo universo privato. Un tutto che vale più della somma delle parti. Ma appunto è in anticipo e lì per lì questo suo lavoro non viene apprezzato, perché la cultura popolare continua a concepire Star Wars nel modo in cui l’ha conosciuto: un trittico di film anni 80.
Questi sono gli strumenti culturali che applicherà J. J. Abrams quando gli verrà affidato tutto. Tolto Star Wars dalle mani di Lucas, lo si può finalmente riproporre al pubblico così come si pensa di volerlo. Escono tre buoni film, ma appunto film. Non si decide di lavorare sull’universo, ma di onorarne il fenotipo. E inevitabilmente qualcosa si spezza. Privata di uno “sfondo” in grado di vivere di vita propria, l’azione che passa sullo schermo non viene ritenuta sufficientemente credibile. Internet fa il resto, e quelle che un tempo erano crepe nell’ingranaggio produttivo, diventano fessure, poi voragini, tanto da far credere al pubblico di essere parte attiva di ciò che sta accadendo dietro le quinte. Le polemiche si moltiplicano, alcune giuste, altre meno, comunque tante, tantissime. Tanto da confondere le idee agli autori, agli attori, ai registi, alla produzione, destabilizzando tutti e alimentando problemi aggiuntivi. Alla base è mancato qualcosa che ai tempi di Lucas c’era: un narratore così convinto che sia tutto vero, da convincere a sua volta anche il pubblico.
La prima stagione del Mandaloriano ha svolto un ruolo fondamentale per riabilitare il brand. Un team solido di persone ben affiatate, sicure della bontà di ciò che stavano raccontando. Un’opera diretta con ispirazione e mano ferma, e un nucleo narrativo così semplice e accattivante da poter funzionare anche da solo: un pistolero solitario che si ritrova a far da genitore a un piccolo alieno magico. Insieme vivono diverse avventure ambientate in mondi sempre diversi, popolati da mostri e creature d’ogni tipo. Una cosa così semplice e banale, in grado però di attirare su di sé l’attenzione dei profani e degli scettici. E una volta attirata l’attenzione, ecco il trojan horse: l’universo di Star Wars in tutta la sua potenza. Storia, geografia, politica, costume, collegamenti a diverse epoche e a diversi medium, fatti con un unico obiettivo: contrabbandare la visione di Lucas di una galassia vera con una storia organica, spazzando via scetticismo, possessività e faziosità.
La Seconda Stagione
Vedere come, settimana dopo settimana, la seconda stagione ha giocato con il pubblico affascinandolo e vendendogli questo nuovo punto di vista è illuminante e vale la pena ripercorrerlo da vicino.
Il primo episodio infrange ogni barriera tra cinema e televisione, portando in scena un piccolo kolossal. La caccia al drago Krayt rimane uno dei punti più strabilianti della serie, specie quando ci si accorge di come il formato dell’immagine si modifichi al manifestarsi del mostro. In un incanto del genere viene piazzato strategicamente il primo collegamento crossmediale davvero grosso: Cobb Vanth direttamente dai romanzi Aftermath, di cui viene proseguita la storyline basata sull’eredità di Boba Fett. E di colpo il lato cartaceo della Forza diventa molto meno irrilevante di quanto si pensasse.
Il secondo ci permette di tirare un po’ il fiato. Inizia la tenera sottotrama dei coniugi Frog, puppetteria hensoniana di alto livello, e l’apparizione di Dave Filoni nel ruolo di pilota della Nuova Repubblica sembra restituire allo scenario politico di quest’epoca quella presenza che nei film di Abrams non si è avvertita.
Il terzo sgancia la bomba. Il personaggio di Bo-Katan, nato animato in The Clone Wars e Rebels, diventa “vero”. Diversamente da Saw Guerrera in Rogue One, questa volta siamo molto oltre la semplice citazione colta per appassionati. Il personaggio rappresenta la nostra finestra sulla cultura mandaloriana, la cui curiosità ci è stata alimentata nel tempo. La gente ci si aggrappa e inizia a vedere le serie animate sotto un’altra ottica. Di colpo quel materiale che prima veniva visto con sufficienza, diventa interessante e The Mandalorian viene percepito come il loro legittimo “sequel”.
Il quarto riaggancia i rapporti con il cast della prima stagione e fa qualcosa di ancor più importante. Si protende in avanti e inizia a spargere indizi per costruire un background per la trilogia sequel. Viene suggerito un legame tra il Bambino e Snoke, si gioca con la musica facendo riecheggiare la Marcia della Resistenza nella Nuova Repubblica. E ci si protende anche all’indietro, citando di sfuggita i midichlorian e suggerendo addirittura un collegamento con la tragedia di Darth Plagueis. Annuncia di voler svolgere un lavoro di coesione e coordinamento tra le parti, che è esattamente quello che Episodio IX non era riuscito a fare. Ma soprattutto pur essendo il frutto di una scuola creativa differente da quella che diede i natali alla trilogia sequel, sceglie di abbattere i muri e di accoglierne gli elementi, potenziandoli.
Il quinto porta a perfezionamento il lavoro iniziato dal terzo, dando vita ad Ahsoka. Partito come un fancasting, la scelta di Rosario Dawson si rivela perfetta. Internet per un po’ diventa un posto migliore, le persone sono felici, e si scopre un amore per quel personaggio nato male e cresciuto così bene che non si credeva possibile. Chi la amava da prima è felicissimo, chi la conosceva poco o a sprazzi si sente incoraggiato a recuperare le serie animate che – casualmente – si trovano a un click di distanza sulla piattaforma. L’episodio poi è bellissimo. A margine: si cita anche Thrawn, ma a quel punto la cosa ha un peso relativo. Dopo tutto questo ormai è fatta e Star Wars è stato venduto “tutto intero” al pubblico. L’episodio successivo non sarà disponibile se non fra una settimana, niente binge su Disney+. E nel frattempo iniziano le maratone di The Clone Wars.
Il sesto è l’episodio di Boba Fett. Conclusa la “promozione” di libri e cartoni animati, la serie è ormai oltre il concetto di sidestory, e ha acquisito uno slancio tale da potersi permettere di dire la sua su un personaggio nato nei film, cambiandone definitivamente la sorte. La galassia ormai è viva e anche il casting quindi si scrive da sé. Boba ci mostra la sua faccia ed è ovviamente l’unica faccia che mai avrebbe potuto avere, quella di Temuera Morrison già interprete di Jango e dei suoi cloni. Mando nasce inoltre come personaggio che richiama Boba, e rendere esplicita la cosa mettendoli attivamente a confronto fa fare alla serie quel passo in più nella giusta direzione, portandoci dove era logico e giusto andare. Boba tra le altre cose si rivela anche un personaggio niente male, con un suo carisma e un codice ben preciso.
Il settimo si prende una pausa da questa gigantesca manovra di marketing percettivo… o quasi. Viene citata l’Operazione Cenere, ci vengono mostrati I Resti dell’Impero e viene suggerito ancora una volta ciò che porterà alla “necessità” dell’affacciarsi di un Primo Ordine. Quello che nella trilogia sequel risultava un semplice reskin dell’Impero, ha qui l’opportunità di essere raccontato in modo credibile, creando un parallelismo con la situazione attuale e di come ad un rilassamento politico corrisponda spesso un nuovo desiderio di totalitarismi. Un episodio filosofico, che parla di politica, di morale, di credo e spiana la strada al fenomenale finale di stagione.
L’ottavo chiude il discorso con grande classe. Bei personaggi, azione di livello e ovviamente il solenne finale con il ritorno di Luke. Piangono tutti, ci si chiede cosa riserverà il futuro, si fanno due risate sulla morte del grasso Bib Fortuna e ci si interroga su cosa sarà il Libro di Boba Fett. Nel frattempo è festa sul web, Filoni e Favreu salvatori, eredi di Lucas etc. E poi ti fermi a chiederti come mai una cosa così ovvia, come l’arrivo di Luke ad adottare Grogu possa averci sorpreso così tanto. Dopotutto era scontato, l’unica cosa logica, se si pensa a cosa Luke sta facendo in quest’epoca. Il protagonista originale di Star Wars che irrompe in questa serie tv di Star Wars. La risposta è che quando costruisci bene, quando vendi al pubblico per sette settimane l’idea che la galassia sia vera, porosa, interconnessa, poi all’ottava ci arrivi credendo che sia tutto reale. E nella realtà può arrivare chiunque, non è detto che arrivi proprio Luke Skywalker. Poteva arrivare un Force User a caso, Jedi o meno Jedi, persino un Windu redivivo. E invece arriva proprio Luke Skywalker ed era ovvio, solo che per un millisecondo ce ne eravamo dimenticati. Ecco la magia.
Una serie “didattica”, insomma. Quasi manipolativa (in senso buono). Concludo con questo esempio: come fai a insegnare al pubblico dopo un anno che non bisogna chiamare Baby Yoda il Bambino? Gli dai un nome nuovo, ovviamente. Poi trasformi questa verità in un piccolo colpo di scena, la affidi all’amatissima Ahsoka e fai in modo che sia lei a insegnarla al protagonista, il tramite con gli spettatori. Poi suggelli tutto con un piccolo adorabile effetto sonoro emesso dal bambino, ogni volta che lo si chiama col suo nome. E in un attimo “Grogu” è finalmente nella coscienza collettiva.
Bravi, porca miseria.