L’uscita di un nuovo Zelda è un evento, o meglio dovrebbe esserlo.
Due parole gliele devo, suvvia. E a ben vedere non solo a Zelda le devo. Perché nell’ultimo anno e mezzo ci sono stati diversi giochi Nintendo sui quali non ho avuto tempo o modo di formulare un commento ma che ho giocato eccome.
Sia questa l’occasione per una piccola retrospettiva, che porti con sé anche qualche riflessione sulla salute di Nintendo.
Pikmin 4. Bellissimo, questo. Non significa che io approvi che ne abbiano fatto un soft reboot (ma poi lo è? Non è chiaro), penso che chiedere qualcosa in più sotto il profilo narrativo a Nintendo non significhi volerla snaturare.
Ma al di là di questo, che grande goduria, che grande piacere, che leggerezza. Nintendo che fa la Nintendo, e la fa al meglio. L’aggiunta del cane Occin al gameplay è… discreta, naturale, non si nota molto. Funziona.
Non un gioco che si impone e ti ruba il tempo. Nemmeno un qualcosa di rivoluzionario. Un onestissimo more of the same… ma stiamo parlando di un same raro. Quattro giochi in vent’anni, su.
Si parla spesso di quale sia il “terzo brand” nel quale Nintendo possa identificarsi dopo Mario e Zelda, e secondo me è questo. Lo firma Nintendo EPD, l’ha inventato Miyamoto, diverte, è narrativamente semplice eppure porta con sé potentissime suggestioni. Potenti perché basiche (un microcosmo nel giardinetto di casa). Wow.
Super Mario Wonder. C’è stato un momento in cui nelle generazioni Wii/Wii U e DS/3DS l’idea di un nuovo Mario 2d veniva accolta con tiepida festa. Si era felici, sì, ma fino a un certo punto. Il problema era la linea dei New Super Mario Bros, ovvero una “serie nella serie” di quattro titoli che, pur divertendo molto, avevano inevitabilmente standardizzato lo stile e il gameplay del Mario bidimensionale. Insomma, belli sì, ma yawn.
Uscirono poi i due Mario Maker, editor per farsi il proprio Mario da soli… che però contenevano al loro interno anche una buona dose di livelli pensati da Nintendo. La loro particolarità è che usavano “pezzi di gameplay” presi dai Mario del passato ma stravolgendone la funzione e il senso. Giocavano con la memoria e trasmettevano un senso di lucida follia.
Ecco, ora immaginiamo di prendere quel briciolo di follia e costruirci attorno un gioco apposta. Super Mario Wonder è, in sintesi, questo. Si sono sbarazzati del sapore derivativo dei New e dei Maker e hanno realizzato un Mario 2D che suona finalmente inedito, originale e zeppo di genio. Tutto grida diversità dalla grafica alle animazioni passando per le idee. Potrà sembrare strano impiantare nuove idee in uno scheletro ludico che sostanzialmente ci chiede di muoverci orizzontalmente da un punto A a un punto B, eppure lo hanno fatto.
Che si tratti della trovata degli elefanti, della disco di Bowser e altre follie, Mario Wonder è un Mario 2D di quelli che indicano la strada. Iconoclasta, godereccio, grasso nel dispiego di idee eppure snello e agile nel metterle in atto, sembra il frutto benedetto dell’unione tra l’irrequietezza creativa giovanile e la saggezza di chi ha l’esperienza per saperla imbrigliare.
Princess Peach: Showtime! Giochino. Sono assolutamente a favore di questi spinoffini, variazioni sul tema e derivazioni mariose, che fungono da agili snack tra un pezzo forte e l’altro. Questo filone in passato ci ha dato cose notevoli, e ha lanciato personaggi e stili di gioco che altrimenti non sarebbero mai stati messi in essere.
Qui l’idea è fresca fresca, Peach vive delle avventure a scorrimento orizzontale saltando tra un genere narrativo e l’altro. E qua e là ci sono delle trovate mica male. Andava rifinito, impreziosito di più, però. Reso meno monotono in certi punti, semplificato in altri, complessizzato in altri ancora. Forse era meglio se finiva in mano ad un team con più verve ed esperienza.
Splatoon 3. Faccio una premessa. Non so quanto io sia la persona più adatta per parlare di un gioco che vive di multiplayer, aspetto che io ignoro, e che poggia su un’estetica hip hop che non ho mai sposato. Eppure la sua modalità storia me la sono pappata eccome. Come mai?
Perché Splatoon è un IP di Nintendo EPD e si sente. Il focus sulla fisica, la fluidità del gameplay, quel senso di perfezione totale nel muovere il personaggio e sentirlo reattivo, sono tutte cose che chi è cresciuto con la migliore Nintendo riconosce subito, desidera e quando lo trova… ci affonda i polpastrelli. Basta metterci le mani per muovere l’inkling e si è già a casa, e a dire il vero credo di essermi anche affezionato allo scenario generale… trama inclusa (!). Il che non significa smaniare per un 4, ma quasi…
The Legend of Zelda: Echoes of Wisdom. Infine eccoci. Il brand prediletto, quello che ogni volta ti cambia la pelle. Ecco, stavolta non l’ha fatto, caviamoci subito sto dente. C’era un po’ da aspettarselo, dato che si vedeva troppo che nasceva per essere uno Zelda minore, il filone parallelo che un tempo era relegato al sottobosco portatile. Ora la tradizione portatile e quelle domestica si sono fuse, la distinzione tra 2D e 3D non ha più ragion d’essere e quindi per differenziarlo dagli “zeldoni” hanno trovato altri modi.
E’ uno Zelda second party, sviluppato in realtà da GREZZO, che si era occupato del remake di Link’s Awakening, anni fa. Graficamente è derivativo proprio di quel gioco, mentre la mappa è una nuova iterazione della geografia di A Link to the Past. Chiaramente la visuale è dall’alto e insomma, è uno Zelda 2D senza essere 2D.
Al di là di questo è un gioco grazioso e seducente. L’idea di muovere Zelda e di basare il gioco sui puzzle legati alla riproduzione di oggetti è carina. La messa in pratica… carina a sua volta. Non dico bellissima perché le copie possibili sono troppe e non è sempre semplice “navigarne il menu”. I dungeon non sono particolarmente geniali ma seguono una formula collaudata che funziona da tempo immemore, e della quale è difficile davvero stancarsi. In generale la fisica e l’esperienza esplorativa di questa “nuova” Hyrule sono di livello alto, da un punto di vista “sensoriale” offrono proprio ciò che uno Zelda deve offrire.
Pigrotta la storia, invece. Senza nemmeno scendere in dettagli sulla sua collocabilità nella timeline (ma chi ci crede più ormai), è semplicemente una cosa generica da videogiochino. E – vera colpa – è prolisso e poco brillante nei testi. Gli Zelda fino all’epoca 64 erano così asciutti e incisivi su questo aspetto che ogni mezza frase acquisiva un valore fuori calibro. Qui, spiace dirlo, no. GREZZO ha ancora molto da imparare.
Ma c’è un aspetto su cui invece GREZZO ha molto da insegnare. Questo gioco si finisce che è un piacere. Nessun ruffiano allungamento di brodo, nessuna sfida impossibile, nessun furto di tempo. Con un pizzico di impegno si riesce a completare davvero ogni subquest, ogni collectible, ogni gioco a premi senza stancarsene. E dopo due open world malati di elefantiasi ho tirato un bel sospiro di sollievo.
Quindi in definitiva, guardando un po’ tutto ciò che ho giocato negli ultimi mesi me ne dichiaro soddisfatto, con menzione d’onore a Mario Wonder. Però, ecco, e qui lancio un appello accorato alla cara Nintendo. Nemmeno passarmi da un eccesso all’altro in questo modo, eh. Tra un’esperienza esagerata come Tears of the Kingdom e uno zeldino subappaltato come questo Echoes of Wisdom possono esserci vie di mezzo. Un gioiello di equilibrio come Ocarina of Time o Twilight Princess sinceramente ancora lo sto aspettando.