Con No Sleep Till Shengal Zerocalcare confeziona un ideale gemello di Kobane Calling. Sì, ritorna il Calcare impegnato, quello del graphic journalism, del fumetto politico e di tutte quelle paroline là che lo farebbero sbiancare/arrossire/sotterrarsi. Ma ha senso tracciare un divisorio tra il Calcare impegnato e quello giocondo? Zomma. Anche nei suoi momenti più seri, Michele non perde mai la sua verve e la cosa funziona anche in senso inverso, quando ammanta di profonda epicità le miserie della quotidianità. E probabilmente il risultato più grosso del suo percorso creativo è proprio questo: aver trovato un timbro vocale molto preciso, con un’estensione tale da abbracciare gli estremi senza mai snaturarsi. E’ un effetto molto “tondo”, lo leggi ed è sempre lui, reale e autentico, qualsiasi cosa ti dica e qualsiasi argomento scelga di trattare.
Qui c’è l’argomento ezidi, che è il cuginetto dell’argomento curdi. E il bello è che non ci prova nemmeno un attimo a fingere che non sia un more of the same. Anzi, si parte da lì: Zero è tornato sul campo perché gliel’hanno chiesto i tipi legati alla cosa dei Curdi, lui si è interrogato sull’opportunità o meno di abbracciare anche questa causa, e ha concluso che – sì – se hai la fortuna di avere un quarto d’ora di popolarità, allora tanto vale spenderlo dando visibilità alle cose in cui credi, ovvero in questo caso il Confederalismo Democratico.
No Sleep è un libro che lascia sicuramente meno il segno di Kobane. E’ meno grosso, meno epocale e meno “totale” nella sua trattazione del problema. E soprattutto perde l’effetto prima volta, quell’effetto da “OMG, ora posso leggere Calcare lustrandomi il monocolo, non è più solo plumcake e Star Wars” che nel 2016 diede una bella scossetta al percepito generale. Per quel che mi riguarda però è anche un libro migliore, e intendo proprio banalmente come fluidità di lettura. Kobane di fondo rimaneva un po’ un accrocchio: era la messa in bella di una storia apparsa su Internazionale, dopo il suo primo viaggio, a cui era stata costruita una cornice e una seconda parte nuova di zecca incentrata sul suo ritorno in quelle zone. Era un libro pregno di contenuto, ma strutturalmente un po’ frastagliato. E c’erano davvero tante spiegazioni che tradivano da parte di Calcare l’ansia di dover tradurre il casino politico della Madonna in cui versavano quei territori. Ce la faceva, eh, perché lui è spontaneo e sincero, ma qui secondo me ce la fa anche meglio.
Di base è la storia di un viaggio. Andata e ritorno, con qualche disagio nel mezzo. C’è un focus narrativo, l’arrivare alla meta senza inciampare, ci sono pericoli percepibili, imbarazzi e ansie. Al di là della causa benefica è molto fruibile anche come storia, un’avventura di Calcare che ti incolla alla pagina. E in cui di vederlo arrivare alla meta sano e salvo te ne importa davvero, che non è poco. Molto probabilmente il segreto di questa maggior fluidità narrativa sta nella postfazione scritta di suo pugno, in cui Zero prende atto che in questi luoghi il tumulto è eterno. E quindi qualsiasi tentativo di narrarlo come se si trattasse di una storia compiuta è destinato a fallire, a invecchiare e ad essere corredato di mille postille e aggiornamenti ad ogni futura ristampa: l’unica è concentrarsi sul momento specifico, fotografarlo nel modo più spontaneo per lasciare una traccia che possa rimanere vivida nella memorie del lettore. No Sleep Till Shengal non ha la pretesa di costruire una prospettiva ampia e definitiva sul tema Ezidi, ma si fa bastare una micronarrazione di qualità. E’ un potente generatore di emozioni, e va bene così.
Tutto il resto è affanno.