Moon Knight e Strange nel Multiverso della Bulimia

r/marvelstudios - EMBRACE THE CHAOS! Moon Knight Poster. Art by: bakikaya.art

Oggi era il 4 maggio, lo Star Wars Day. E a parte un trailerino, non è uscito molto altro. Di contro, in questa stessa giornata abbiamo avuto il finale di Moon Knight e l’uscita al cinema di Doctor Strange nel Multiverso della Follia, oltre tre ore di materiale inedito firmato Marvel Studios. C’è di che sentirsi viziati e privi di misura. Perché la saga di questo nuovo secolo è il MCU e ormai l’abbiamo capito. L’unica che sta davvero riuscendo a trovare la quadra, assecondando i gusti del pubblico ma senza abbrutire nessuno, trovando formule comode per sopravvivere e allo stesso tempo sperimentando con trovate ad alto tasso artistico, conciliando alta qualità e una quantità di materiale a ritmo vertiginoso. E per ora l’equilibrio non si è ancora spezzato. Verrebbe di dire “occhio, Kevin, impara a dosarti, che lo stato di grazia non dura mai troppo a lungo”. Eppure lui ti risponde con produzioni come queste, e allora che gli vuoi dire. Funziona, funziona tutto.

Cominciamo da Moon Knight. Sei episodi, sulla falsariga di Falcon, Loki e Hawkeye. Con una differenza: questa volta apriamo un filone nuovo, e lo facciamo con una serie e non con un film. E il filone è nuovo davvero: le divinità egizie, i disturbi di personalità, lo scenario londinese, un Oscar Isaac in stato di grazia. Umorismo nero, una regia in grado di farti davvero vivere il disagio mentale del protagonista e una ventata di freschezza e novità. Siamo molto oltre lo stereotipo del cinecomic, si gioca proprio in un’altra classe e i collegamenti al resto del MCU sono rari (per ora).

La struttura ricalca parecchio le dinamiche delle altre serie Marvel con questo stesso formato, ovvero una sorta di filmettone diviso in sei fette. Le prime due introducono, la terza è quella più action e apparentemente verticale, la quarta innesca il climax, e la quinta rappresenta come sempre una battuta di arresto, in preparazione della sesta che corrisponde alla battaglia finale. Uno schema semplice, in grado di regalare chicche non da poco: il penultimo episodio in particolare è tra le cose registicamente più potenti della storia Marvel, un thriller psicologico con venature metafisiche, in grado di entrarti dentro e fare male. Roba che un vero fan di Lost non può ignorare. Se poi sei anche fan del Fantasia di Disney, vedere che lo scontro finale è la versione pantografata e fotorealistica della Danza delle Ore, può solo farti felice. Un applauso al buon vecchio Poe Dameron, già uno degli eroi Marvel più belli di sempre.

E poi c’è Strange, quel grande personaggio di Strange che è solo al suo secondo film solista ma dopo Ragnarok, Infinity War, Endgame, What If e No Way Home è già assurto a star di prima grandezza nel MCU. Di questo atteso, attesissimo film ci sono essenzialmente tre cose da dire.

La prima è che è un film di Raimi, che tutti aspettavano al varco, dati i suoi trascorsi con l’horror e i supereroi. Ne esce un film visivo, estetico, sensuale, a tratti grottesco e compiaciuto, ma è esattamente ciò che si chiedeva ai Marvel Studios, spesso accusati di avere uno stile fin troppo uniforme e poco autoriale. Già il primo Strange aveva dimostrato di poter essere un film davvero ispirato, e l’episodio di What If su di lui era riuscito a sua volta a distinguersi dal resto. Qui si prosegue in quella direzione, e Raimi si diverte tantissimo: zombie, demoni, mostri lovecraftiani, geometrie non euclidee, allegria e disagio, arrivando a veri e propri tocchi di genio come la battaglia in cui si lanciano addosso le note musicali e lo spettatore si ritrova a doverne decifrare i motivetti. Inoltre è tutta azione chiara e leggibile, niente pioggia, buio, telecamera che traballa e foschia, il che mi è parso troppo bello per essere vero.

La seconda è che il vero cuore del film è il suo voler essere un epilogo a Wandavision, la serie che aveva dato il via alla Fase 4 e che aveva sfidato generi e formati supereroistici, come mai prima d’ora. Wanda è a tutti gli effetti la coprotagonista del film, è una presenza magnetica, ha carisma e qua e là ruba la scena a Strange. Il film è potente perché riesce a incanalare l’energia di questi due mattatori, ma la Olsen continua ad essere abbagliante e a trasmettere allo spettatore tutta la sua emozione, tutta la sua sofferenza, tutti i suoi contraddittori stati d’animo. Non sono sicuro che sia l’epilogo che avevo sognato, anche se forse è quello più giusto per la storia.

La terza è il cameofest. Ecco, col senno di poi dispiace che un film così bello sia stato caricato di aspettative così grosse praticamente solo per quanto riguarda questo aspetto, che posso dire senza timore di spoiler, essere assolutamente circoscritto e secondario. Sembra proprio di star vivendo tutto sotto una brutta lente deformante. No, non sembra esserci un grande piano per inglobare e legittimare nel multiverso di Feige ogni cosa altrui prodotta su licenza Marvel negli anni passati. Anzi, a rigor di logica i personaggi coinvolti nelle scene in questione non sono realmente le nostre vecchie conoscenze, ma loro varianti pressocché identiche. Ne deriva che questi cameo servono a poco, anzi risultano distraenti, confusionari e difficili da inquadrare. Prepariamoci alla fiera del fraintendimento, uno dei rischi maggiori insiti nel concetto di multiverso.

E già che ci siamo, ecco un altro neo, che ho riscontrato sia in Strange che in Moon Knight. Le post credits. Da qualche tempo a questa parte queste scene che in passato costituirono il collante del progetto MCU, risultano spesso generiche, oppure specifiche ma oscure e difficili da decifrare. Un personaggio mai visto prima appare dal nulla, si presenta a malapena, recluta il protagonista con una mezza frase e la storia finisce con un mezzo cliffhanger, lasciando lo spettatore con un senso di boh. Rimango dell’idea che un film sia un’esperienza, di cui è bene mantenere un buon ricordo. Le post credits spesso sono l’ultima immagine che viene lasciata in mano allo spettatore, e sarebbe bene che fossero o un qualcosa che comunica compiutezza, oppure dei cliffhanger in grado però di portare la mente in una bella direzione, sulla quale fantasticare nei mesi successivi. Adesso siamo nell’epoca dei franchise, in cui le regole del gioco invitano ad un continuo rilancio, per dare l’impressione che la narrazione sia sempre in corso e mai finita. E con l’arrivo della Fase 4 la produzione si è intensificata e ramificata rendendo più difficile vedere i contorni della figura, a differenza di come poteva essere dieci anni fa. Però è qui che dico attenzione, che se la corda si assottiglia e il giocattolo inizia a venir narrato male poi questo si inceppa. Moon Knight e Strange 2 sono due eccellenti risultati, venuti per giunta dopo Endgame, che si pensava essere il climax irripetibile di questa epoca cinematografica. Ma sono anche il frutto di una macchina produttiva bulimica che si nutre di rilancio continuo, meccanismo che se da un lato li potenzia, dall’altro rischia di indebolirli, svelando la natura eccessiva di questo magico paese dei balocchi disneyano.