Francesco Artibani è un nome noto nel mondo del fumetto italiano: sceneggiatore da molti anni per Disney, Lupo Alberto e tante altre realtà dell’intrattenimento per ragazzi, è sempre stato un autore capace di regalare molto in termini di qualità ed emozioni ai propri lettori.
In particolare dopo il ritorno dell’autore in casa Disney, ha realizzato alcune storie decisamente di rilievo, che hanno portato ulteriore attenzione mediatica su Topolino.
Noi del Sollazzo abbiamo allora deciso di intervistarlo, scegliendo di porgli delle domande che oltre a riguardare lui cercassero di approfondire l’attuale panorama fumettistico disneyano e non solo, offrendo in questo modo riflessioni certamente interessanti.
Ciao Francesco. In questa nostra intervista vorremmo parlare di te e del tuo lavoro, adottando un punto di vista trasversale e andando a toccare alcuni temi basilari del mondo del fumetto. Per esempio, tu hai sceneggiato molto per Topolino, ma anche per riviste Disney dall’imprinting diverso (PK, Witch…) e per cose extra-Disney (Il Boia Rosso, Winx, X-Campus, Lupo Alberto) e sempre con risultati qualitativamente molto alti. Insomma, hai dimostrato una certa dose di eclettismo che ti ha permesso di mimetizzarti in ambiti diversissimi, dimostrando sempre una grande professionalità e un profondo rispetto dei personaggi. Ci spieghi come fai a gestire approcci anche molto diversi? Insomma, quali sono i segreti di questa “mimesi artibanica”?
La pratica della mimesi in realtà non nasconde particolari segreti. È un lavoro di equilibrio tra quello che è il rispetto del personaggio e la ricerca della possibilità di raccontare qualcosa di nuovo provando ad adattare un po’ le regole alle proprie esigenze. Questo tipo di lavoro lo applico soprattutto quando scrivo personaggi non miei, personaggi che spesso hanno decenni di vita editoriale alle spalle (come nel caso di quelli disneyani o Lupo Alberto). È riduttivo e, in definitiva, sbagliato aderire completamente e in modo acritico a un personaggio; la conseguenza è quella di scrivere qualcosa di già visto cadendo nel manierismo e replicando lo stile di altri. A mettersi al servizio del personaggio si finisce per fare i maggiordomi, non gli sceneggiatori e in questo caso l’apporto che si dà al personaggio o alla serie è nullo; mi pare molto più utile, divertente e stimolante provare a “stressare” un personaggio spingendolo fino al limite di quelli che sono i suoi confini, i famigerati “paletti” che spesso vengono citati quando si parla di personaggi con una tradizione consolidata alle spalle. La mia quindi è una mimesi a metà; mi adeguo al personaggio, lo studio per muoverlo fedelmente ma nel contempo approfondisco quello stesso studio per capire fin dove posso spingermi. Per quello che invece riguarda i personaggi nuovi si tratta solo di metterci tutto l’impegno e la passione possibile per scivolare nella storia e nei suoi protagonisti. Di solito raccolgo sempre molta documentazione; è accaduto nel caso del Boia Rosso disegnato da Ivo Milazzo ma anche per Cooking Girls, la nuova serie che ho realizzato con Katja Centomo (co-autrice di Monster Allergy, socia in mille cose nonché mia moglie); nel primo caso si trattava di rendere viva la Roma di metà Ottocento, nel secondo caso bisognava entrare nel mondo della cucina e della ristorazione e far muovere otto cugine di età e provenienza differenti. Quelle della documentazione e dello studio sono le parti del lavoro che preferisco.
Com’è cambiato, se è cambiato, il tuo modo di scrivere fumetto oggi rispetto agli anni ’90? Ritieni di aver avuto una sorta di evoluzione stilistica, un cambio di approccio? Se sì, voluto o inconsapevole?
Con il tempo si possono sicuramente apprendere trucchi e scorciatoie ma in realtà la sostanza del lavoro di scrittura per i fumetti o per l’animazione è sempre rimasta la stessa. Lo stile può variare e adattarsi ma, anche scrivendo storie differenti da quelle a base di animali antropomorfi, ciò che non è cambiato è lo spirito con cui mi metto alla tastiera, ossia il desiderio di provare a raccontare qualcosa di sorprendente e possibilmente divertente, senza cercare l’effetto facile o la soluzione ruffiana ma restando concentrati sul pezzo per tirare fuori qualcosa che funzioni. Per me la sceneggiatura è un lavoro di andirivieni; magari non padroneggerò con spericolatezza l’approccio ultraprofessionale di quelli che parlano di primo, secondo e terzo atto, di climax e anticlimax ma la cosa non mi preoccupa, per me l’importante è che la storia stia in piedi. È un provare e riprovare continuo, scrivere, cancellare, recitare ad alta voce le battute per sentirne il suono limando quello che stona in un esercizio quasi musicale. L’andirivieni che c’è dietro una storia è fatto di scene, dialoghi, dettagli da collocare, elementi da intrecciare. Le storie per me si guardano dall’alto, è come osservare la stanza in cui ti trovi dalla cima di una scala. Il cambio di prospettiva ti permette di cogliere subito elementi nuovi o un pezzo fuori posto (perché se sei troppo dentro la scrittura certi dettagli sfuggono). Dagli anni Novanta a oggi è rimasta dunque una pratica artigianale e questo mi piace perché è una pratica onesta (e bisogna essere onesti perché il lettore se ne accorge sempre se lo prendi in giro o lo tratti da stupido).
Un fumetto a cui hai lavorato è Lupo Alberto, l’abbiamo citato prima. Negli ultimi anni purtroppo il Lupo ha affrontato una situazione non molto piacevole, che ha ridotto di molto la sua presenza nelle edicole. Che ricordo hai del tuo periodo “in fattoria” e quale pensi potrebbe essere la strada giusta da imboccare per riportare Alberto, Mosé ed Enrico agli antichi splendori?
Lupo Alberto per me è un personaggio fondamentale per tantissime ragioni. Innanzitutto come lettore è stata una delle mie prime scoperte autonome, una rivelazione dirompente. L’umorismo e il tratto di Silver mi hanno segnato a fondo alimentando la passione che poi è diventata un mestiere. Lupo Alberto e tutto il cast della fattoria McKenzie sono un’invenzione straordinaria nella storia del fumetto italiano e verso questi personaggi e il loro autore ho un debito incolmabile. Al Lupo lego poi la mia scelta di dedicarmi a tempo pieno alla scrittura; ho cominciato a lavorare nel mondo del fumetto come disegnatore alla fine degli anni Ottanta e tentai anche la strada di Lupo Alberto realizzando delle pagine di prova su dei miei testi. Silver non trovò adatti i miei disegni ma apprezzò la storia invitandomi a realizzarne altre. Sulle pagine del mensile pubblicato all’epoca da Macchia Nera ho lavorato anche come disegnatore (con Le nuove avventure di Scardaglione e Maruzzelli, scritto da Lello Arena) ma è soprattutto con le sceneggiature del Lupo che ho trovato il mio spazio, arrivando a scriverne oltre cento. Quella di Lupo Alberto è stata (e lo è ancora) una lezione fondamentale per capire l’uso dei tempi comici, delle gag visive e di quelle verbali, la costruzione della battuta e dei dialoghi e tutto il resto. Il ricordo di quel periodo è un ricordo felice dato da un clima unico in redazione, con persone altrettanto uniche e di grande talento, un periodo di crescita personale e di scoperte. Spero che Lupo Alberto possa tornare presto agli antichi splendori che voi citate perché è un personaggio che merita ancora molto e perché ha degli autori bravissimi al suo servizio (oltre al luccicante Silver penso a Bruno Cannucciari e Giacomo Michelon). La Panini ha annunciato un programma di ristampe in volume di tutto il materiale del personaggio (tavole e storie); chissà che l’arrivo di un grande editore (in vena di acquisizioni e rilanci) non possa portare qualche novità consistente, magari ricominciando a produrre storie inedite.
Passiamo al mondo Disney. Zio Paperone e l’Ultima Avventura: una storia impegnativa fin dal titolo. Una lunga avventura pubblicata qualche mese fa che omaggia Barks, Cimino e la figura di Zio Paperone a tutto tondo, che ne esce benissimo in una delle migliori storie del personaggio degli ultimi anni. Cosa ti ha spinto a scriverla, e perché hai deciso di ripescare alcuni personaggi che giacevano inutilizzati da tempo (Cuordirpietra Famedoro, i Terrini&Fermini)?
“Perché no?” – mi sono detto. Tutto è partito da qui, dal desiderio di provare a sperimentare qualcosa di diverso in una storia disneyana e una riunione di cattivi era l’idea giusta (un’idea che in ambito Marvel o DC avrebbero bollato come già vista, ma tant’è…). Volevo anche provare a dire la mia sulla questione Rockerduck/Cuordipietra, due personaggi profondamente diversi tra di loro che spesso vengono frettolosamente sovrapposti, come se Rockerduck fosse semplicemente una versione rivista e corretta del miliardario sudafricano a uso dei lettori italiani. Costruendo un racconto ampio e articolato sono andato poi ad ampliare il cast con quell’andirivieni di cui si diceva poco fa e, un pezzo alla volta, tutte le domande hanno trovato risposta, costruendo un intreccio ampio in cui dentro ci fosse l’avventura, l’umorismo e la parte sentimentale, quella delle emozioni che sono imprescindibili quando si parla di personaggi disneyani. Dentro ho provato a metterci tutte le cose che mi sono sempre piaciute, dai protagonisti ai comprimari passando per le situazioni. È una storia a cui sono particolarmente affezionato.
Paperone torna ancora in splendida forma nella recente parodia di Moby Dick oltre al protagonista, anche Paperino e Qui, Quo, Qua spiccano in quanto a caratterizzazione. Ci parli un po’ del “casting” che hai fatto e del processo creativo che ci ha portato ad avere dei paperi così vivaci e grintosi?
Sono partito dalla soluzione più semplice e l’ho subito messa da parte. La soluzione più semplice partiva dalla gamba posticcia del capitano Achab e il collegamento immediato era a l’unico personaggio disneyano con una gamba finta, Pietro Gambadilegno. Di conseguenza, andando a distribuire le parti, Topolino sarebbe stato un perfetto Ismaele, Pippo sarebbe stato l’altissimo Queequeeg e pian piano tutti gli altri (a cominciare da Basettoni a Manetta) avrebbero trovato un posto a bordo del Pequod. Ma era questo quello che stavo cercando? Ovviamente no, perché sarebbe stato un lavoro freddo mentre la mia intenzione era quella di fare una parodia disneyana, dove i personaggi sono riconoscibili e dove la storia, a grandi linee fedele all’opera originale, si prende delle libertà bizzarre (sull’esempio dell’oro di Reno di Guido Martina, per capirci). Ragionando su Achab e Ismaele vedevo la vicinanza con Paperone e Paperino; Achab e Paperone condividono un’ossessione (la balena bianca il primo, la sua numero uno il secondo) mentre Paperino funzionava per contrasto. Ismaele è un personaggio che vuole viaggiare per conoscere il mondo, Paperino è uno che viaggia per mettersi in salvo ma entrambi sono mossi da una passione (che nel caso di Paperino lo conduce verso grandi disastri). Trattandosi di una parodia ho pensato quindi a sfruttare l’occasione mettendo in scena dei personaggi un po’ diversi dal solito ma non agli antipodi delle loro caratterizzazioni originarie. Paperone nei panni di Quachab è tornato ad essere il papero torvo e scostante del Natale sul Monte Orso e anche i tre nipotini, nel ruolo di Queequeeg, sono tornati ad essere tre pesti, tre spine nel fianco di Paperino. Il risultato, almeno secondo me, è stato quello di avere una storia in cui i personaggi disneyani restavano in ogni caso disneyani ma allo stesso tempo riuscivano ad essere anche altro, come i personaggi del classico di Melville. Anche qui, come vedete, c’è stato quell’andirivieni nella costruzione, un andirivieni che non c’era nella opzione con Topolino dove tutto era troppo semplice. Ecco, diciamo che in generale le cose troppo semplici non mi piacciono e cerco sempre un modo per complicarmi la vita, fumettisticamente parlando.
Parliamo ora dei personaggi Disney in generale.
Hai più volte affermato di amarli visceralmente, e del resto il fatto che ci accompagnino ormai da un secolo la dice lunga sulla loro versatilità. Ma al di là di questo, qual è a tuo avviso l’effettiva marcia in più che hanno rispetto ad altri? Insomma, cosa li rende gli straordinari personaggi che sono?
Sono personaggi universali, ricchissimi in termini di emozioni. Più che delle maschere sono delle figure rappresentative assolute. Cambiano le epoche, cambia la società e cambiano gli autori che raccontano le loro storie ma i personaggi Disney – se usati rispettosamente e con criterio – sono sempre vivi e attuali. Ci sono personaggi che non invecchiano perché sono cristallizzati (penso a Tex o Diabolik), personaggi che ogni tanto devono fare un tagliando e un lifting per riaggiornarsi (penso ai supereroi classici di Marvel e DC) e poi ci sono i personaggi disneyani capaci di essere sempre in sintonia con il mondo che li circonda. Questo accade perché sono personaggi che – concedetemi una botta di zuccheri – parlano al cuore della gente mettendo in scena i legami fondamentali (la famiglia, gli affetti, l’amicizia) e gli stati d’animo più naturali (gioia, rabbia, allegria e via dicendo…). Non sono personaggi fasulli, non recitano una parte: sono veri e i lettori, ognuno a modo proprio, lo sanno.
Parliamo di formazione e preferenze personali. Quali sono gli autori Disney che più ti hanno formato, cosa ti hanno trasmesso e quali sono i personaggi che da sempre ami di più?
Ho cominciato a leggere Topolino quando i nomi degli autori non erano inseriti sotto la prima tavola di ogni storia ma erano raccolti tutti insieme nel colophon con i nomi dei collaboratori. Come molti della mia generazione ho scoperto le identità solo in seguito; per me da bambino c’erano le storie dove i paperi facevano strani viaggi intorno al mondo, quelle in cui zio Paperone rincorreva sempre Paperino alla fine dell’avventura e via dicendo, storie che dividevo in categorie mie. Ci ho messo un po’ di tempo ma alla fine quei nomi sono saltati fuori: Cimino, Chendi, Pezzin, Martina, Scarpa… e poi Cavazzano, i due De Vita, ancora Scarpa e naturalmente i due giganti assoluti Barks e Gottfredson (con i suoi Walsh, Osborne, De Maris…). Insomma, i classici. In termini di affetto ho una passione particolare per il binomio Pezzin/Cavazzano. Crescendo negli anni Settanta sono stati una rivelazione vera con il loro dinamismo nella narrazione e nel disegno, una rivelazione doppia quando li ho ritrovati con le loro altre serie sul Mago o sul Giornalino. E poi inevitabilmente ci sono Cimino, Chendi e Scarpa. Che sia un merito o una colpa comunque è per autori come loro se mi sono dedicato a questo strano lavoro.
Tutto questo porta ad una domanda più generale: cosa pensi che sia importante per essere un bravo sceneggiatore Disney? Gli autori, specialmente quelli giovani, quali accorgimenti dovrebbero avere per poter muovere bene questi personaggi? Qual è l’atteggiamento che fa la differenza, e quale direzione andrebbe seguita per garantire un futuro al fumetto Disney?
Lo dico non per fare il finto modesto o per cercare pacche sulle spalle: non so se sono un bravo sceneggiatore ma so per certo che faccio questo lavoro con grande passione e impegno. Non mi piace dare consigli ma, dovendo rispondere alla domanda, direi che questi due elementi – passione e impegno – non devono mancare mai, in nessun momento della propria attività, che si sia degli esordienti assoluti o dei veterani con quarant’anni di storie sul groppone. Mai tirare via, mai cadere nella trappola del “…ho fatto una storia lunga e difficile, ora mi rilasso con una breve…” perché ogni storia pretende il massimo dello sforzo (perlomeno se vuoi fare decentemente questo lavoro). Per muovere questi personaggi bisogna sicuramente conoscerli ma bisogna soprattutto capirli per evitare di trattarli come marionette. Il “perché” secondo me è sempre l’interrogativo più importante; le storie si possono anche costruire meccanicamente ma sulle motivazioni dei personaggi non si può barare, non si può andare in automatico. Se uno spunto per Topolino funziona anche per Paperino c’è qualcosa di sbagliato.
Sulla questione del futuro del fumetto Disney non so che dire perché entrano in gioco troppi elementi che poco hanno a che fare con la qualità delle storie. Quello che so per certo è che in questo preciso momento storico, con il nuovo corso dato dall’arrivo di Panini Comics, tutti gli autori devono dare il massimo in ogni singola pagina perché abbiamo l’occasione – e direi anche il dovere – di fare un grande giornale.
Di contro, che consigli daresti per impedire la nascita di cattivo fumetto disneyano? Quali sono secondo te gli errori più comuni che un autore giovane dovrebbe assolutamente evitare?
Premesso che ognuno fa quello che può, ci sono cose che, da lettore, non mi sono mai piaciute particolarmente, ieri come oggi. Un racconto può riuscire più o meno bene, questo è sacrosanto: Topolino del resto pubblica migliaia di pagine all’anno con centinaia di storie ed è normale avere storie belle e meno belle. Quando leggo certi commenti su siti e forum che esordiscono con il classico “Questa storia non è un capolavoro, però…”la mia risposta è un inevitabile “Grazie al cavolo” (forse non dico proprio così ma il senso è più o meno quello). Però… in quel “…però…” c’è il senso di questo mestiere. “Non è un capolavoro però mi sono divertito” dovrebbe suonare la frase completa. Divertire il lettore, intrattenerlo per una mezz’oretta con un buon racconto è l’obiettivo e questo obiettivo lo centri se non bari, se non tiri via, se non procedi col pilota automatico. Se questo accade stai facendo un cattivo servizio al giornale, ai personaggi, ai lettori e in definitiva a te stesso come autore. Ogni storia, anche la più breve, deve avere un’idea forte, una scena emozionante, delle gag. Barks realizzava storie brevi clamorose perché dentro c’era tutto questo e non bisogna certamente essere Barks per riuscire nell’impresa, basta solo un po’ di buona volontà. Non entro nel merito del lavoro di nessuno però posso dirti quali sono le cose che, nel mio, preferisco evitare:niente storie basate solo su umorismo verbale. Servono gag fisiche e visive e la sola comicità di parola non basta (ed è pure rischiosa, alla luce delle tante traduzioni estere che le storie italiane hanno).
Niente citazioni, ammiccamenti, omaggi o inside jokes: da tenere lontani come la peste i riferimenti a serie o personaggi televisivi. Io compro il giornale per leggerlo dall’inizio alla fine e capire quello che c’è scritto, non per sentirmi tagliato fuori da un discorso. Inoltre, pericolo aggiuntivo, farcire di citazioni una storia è il modo migliore per renderla impubblicabile in futuro (ho sempre vivo il ricordo di una storia anni Ottanta con Topolino e Minni che partecipano al Gioco delle Coppie condotto da Marco Topumbro. Per rendere comprensibile il racconto a un bambino nato nel 2005 oggi è necessario aggiungere delle note in appendice).
Non proporre storie sconvolgenti a tutti i costi. Se una certa cosa Topolino non l’ha mai fatta fermati e interrogati, un motivo ci sarà.
I cartoni animati sono un terreno difficile su cui lavorare, ma tu hai messo il tuo zampino anche lì. Le tue esperienze nel campo sono molteplici (ultima delle quali Le Straordinarie Avventure di Jules Verne), e del resto l’animazione è anche un elemento imprescindibile dell’eredità disneyana, per quanto il mondo a fumetti sia diventato quasi uno scenario a sé. Pensi che il mondo del fumetto e dell’animazione Disney possano ancora sfiorarsi in qualche modo, influenzando il lavoro degli autori? Quali sono i tuoi film animati preferiti?
In realtà io ho cominciato nell’animazione. Mi sono diplomato come tecnico del cinema d’animazione all’Istituto di Stato per la Cinematografia e Televisione di Roma (meglio noto come Istituto Roberto Rossellini o, meglio ancora, Cine-Tv). Da quella scuola era uscito prima di me Corrado Mastantuono e, anche se meno di lui, anch’io dopo il diploma di maturità ho lavorato nell’animazione come assistente animatore e animatore, dedicandomi anche agli storyboard. L’esperienza trascorsa in larga parte nello studio del bravissimo Vito Lo Russo mi è stata molto utile per maneggiare gli elementi del racconto, del ritmo e dell’azione sulla scena. Anche qui c’è stato un andirivieni interessante; dall’animazione al fumetto e ritorno (questo in veste di sceneggiatore). Una volta capito che era più facile scrivere che disegnare ho scritto per i fumetti e per i cartoni animati e questa continua contaminazione tra mezzi espressivi e generi la trovo ancora oggi utile e stimolante proprio perché si imparano quotidianamente cose nuove e si affrontano sfide e problemi sempre diversi. Questo contatto aiuta a crescere e anche in ambito disneyano non può che essere così. Guardarsi intorno per un autore è essenziale, capire che cosa fanno gli altri e come lo fanno è un esercizio indispensabile per migliorare. Per quello che riguarda i film d’animazione ci sono naturalmente i classici disneyani a partire da Biancaneve fino alla rivoluzione della Pixar ma la lista dei preferiti è lunga e va dai lavori di Fleischer alla Dreamworks… insomma, se dentro c’è un’idea e una sorpresa sono poche le cose che non mi piacciono!
Infine, ecco una domanda che ti avranno posto fin troppe volte nell’ultimo anno, ma che il Sollazzo, per via delle sue origini, non può assolutamente ignorare. Il ritorno di PK è tuttora previsto? L’avvento di Panini Comics influirà in qualche modo sul progetto? Cosa puoi dirci per adesso di quello che ci aspetterà nel prossimo futuro?
Sperando che l’affetto e l’entusiasmo per quello che fu il capolavoro del fumetto Disney degli anni 90 sia ancora vivo in noi e in voi, non possiamo fare a meno che augurarti buon lavoro!
Su Pikappa non aggiungerò granché a quello che è già stato detto. Ci sono dei progetti in fase di sviluppo ma il ritorno di Pikappa passa per un percorso laborioso verso il quale i lettori dovrebbero guardare con ottimismo, senza particolari timori o pregiudizi, mettendo soprattutto da parte le critiche precotte. Appena ci saranno annunci ufficiali da parte dell’editore sicuramente torneremo a parlarne; quello che posso affermare senza problemi è che l’entusiasmo non manca!
A presto e buone cose!