Dimenticate le due vecchie versioni dell’Uomo Ragno. Lasciate perdere i collegamenti con i fumetti. Accantonate le fruste storie d’origini, con morsi aracnoidi e rimorsi per zii scomparsi. Spider-Man: Homecoming, molto più degli altri film del MCU, non ha bisogno delle tavole a fumetti, e dipende in maniera netta e quasi completa dalle altre opere cinematografiche, inscrivendosi nel mondo generato dagli Avengers e dalle loro battaglie. Tutto parte dalla battaglia di New York contro i Chitauri, l’Uomo Ragno cresce nel mito di Iron Man, e il ragazzino che gioca a fare il supereroe è l’ottimo diversivo in Civil War per spiazzare la banda di Capitan America, nulla più. Questa è forse la più grande differenza rispetto alle versioni di Raimi, eccellente, e a quella meno riuscita di Marc Webb. A generare questa frattura narrativa, però, non è solo il grande serial costruito in 10 anni e 15 film, ma soprattutto una sfida tra studios hollywoodiani e una battaglia di diritti. Sappiamo bene come Spider-Man sia proprietà della Sony, ma la casa giapponese non ha saputo reagire alle strategie Marvel di universo condiviso e, travolta dallo scandalo dirigenziale dei leaks, si è trovata costretta ad appaltare la narrazione del ragnetto proprio agli avversari disneyani. Dal punto di vista dello spettatore è sicuramente un’operazione win – win, in cui finalmente uno dei supereroi più noti può combattere al fianco degli eroi amati, ma non sappiamo ancora se la Sony proverà a far saltare l’accordo o meno.
Torniamo invece al film vero e proprio. Homecoming si pone, finalmente, come film di supereroi anomalo all’interno del MCU. Non è una storia di origini, non ci sono grandi battaglie e, finalmente, il personaggio del cattivo è scritto bene. L’intenzione è quella di fare un teen movie ambientato nel mondo liceale americano, materiale classico i cui capolavori si trovano nei film anni ’80 di John Hughes, autore ormai cult e saccheggiato a piene mani in questi anni nostalgici e retrò. La pellicola funziona molto bene in questa direzione, utilizzando topoi classici – l’amico ciccione nerd, la bella irraggiungibile, la solitaria corrosiva, la festa scolastica e il concorso accademico – aggiungendo il multiglobalismo attuale e quei necessari scarti narrativi per aggiungere pepe e sorpresa nello spettatore. Tom Holland come protagonista è così decisamente perfetto, giovane, scavezzacollo ma responsabile, simpatico guascone per cui non si può fare il tifo. Paradossalmente, a legare il film al genere supereroistico non è tanto il protagonista, quanto un personaggio esterno, l’Iron Man di Robert Downey Jr. qui nel ruolo di mentore e di semi-genitore sopra le righe. Gustoso e divertito il personaggio di Zia May, reinterpretato in maniera convincente da Marisa Tomei, cui troppo poco screen-time viene dedicato: il suo continuo spaesamento è anche quello di noi spettatori di fronte ad un mondo pieno di supereroi.
Nel casting a giganteggiare è però Michael Keaton, che diventa il miglior villain dell’universo Marvel (a dire il vero, non un’impresa così difficile): il suo Avvoltoio è un carattere complesso, figlio della propria epoca e personalità ambivalente, sospesa tra la necessità di dare un futuro alla propria famiglia e di tirare fuori gli artigli in una società, imprenditoriale e americana, in cui tutti sono lupi e l’alternativa è tra vincere o soccombere. Specchio perfetto dell’era trumpiana, travolta da diseguaglianze abissali e spietati favoritismi, l’Avvoltoio vola in alto nel cielo per ricordare all’America il suo sogno e le derive che esso può prendere. Keaton è un uomo provato, le sue rughe ci ricordano la fatica quotidiana di far quadrare i conti, e di portare a casa la pagnotta. E il personaggio conferma la scelta registica del film: lo scontro migliore con l’Uomo Ragno non è contrappunto da esplosioni e ragnatele, ma nel confortevole abitacolo di un’automobile, un gioco di sguardi incrociato e un’arte oratoria funambolica e tagliente, in cui gli avversari si prendono le misure, pronti alla pugna. In questo frangente, emerge la musica di Michael Giacchino, che scrive un tema del villain eccezionale: l’incedere lento ma costante di timpani e tamburi scorre inesorabile, e archi struggenti sottolineano l’animo di un uomo solitario e disperato, cui non resta altra scelta, mentre i piatti danno l’idea degli implacabili colpi che la realtà infligge.
Homecoming è l’ultimo, per ora, tassello del grande universo Marvel, e il primo che vive solo di sè stesso e che afferma con orgoglio i concetti (meta)cinematografici che ha portato con sè, dentro e fuori la pellicola. Peter Parker vive con gli Avengers, e dipende strettamente da loro, rendendo l’opera sempre più realistica. Era necessario conoscere una realtà scolastica per capire tutto questo, serviva tornare con i piedi per terra per comprendere meglio il senso del supereroe, e l’amichevole vicino di casa è la chiave perfetta per comprendere tutto questo. Dunque, bentornato a casa Marvel, Spider-Man!