Fine di Indiana Jones.
O almeno così si dice. In ogni caso è un momento importante perché Indy è stato, sì, un grande personaggio, interpretato da un grandissimo attore, con le sue grandi storie etc, ma soprattutto è stato espressione di un certo tipo di cinema. Quello della grande avventura targata George Lucas, Steven Spielberg, John Williams e amici, un genere che di certo aveva precedenti, e avrebbe avuto anche successori, ma che fatto proprio in quel modo là, con quel misto di sagacia, ingenuità, carisma e sensibilità artistica, lo sapevano fare solo loro.
Anche per questo spero che non ne facciano un franchise, non lo reiterino, non lo rebootino, ma abbiano l’onestà di lasciarlo così, con un finale che trovo azzeccato e per certi versi anche moralmente giusto. Per carità, nulla mai rimane inattivo troppo a lungo a Hollywood, ma il mondo di Indy non penso possa davvero offrire più di quanto abbiamo avuto. Non ha una galassia di possibilità come Star Wars, ed è davvero troppo legato alla vita di Ford.
Ma il film è buono?
Lo è nel complesso, ma ha anche qualche magagna. Tanto per cominciare Mangold non è Spielberg e questo si nota nelle scene d’azione, che sono inefficaci. Troppi inseguimenti tirati in lungo, troppe sequenze buie, inquadrature confusionarie penalizzate da luci e una fotografia non sempre all’altezza. Fa eccezione la bellissima fuga durante la festa dell’allunaggio, un momento davvero iconico ed esteticamente all’altezza del lavoro dei grandi esteti. Inoltre sebbene non manchi l’umorismo, al film sembra mancare “quel” tipo di umorismo fatto di esagerazione, cazzonate, paradossi, in altre parole quella sfacciataggine da “tall tales” americana che scene come quella del figo, della scimitarra o della contrattazione col gangster avevano. Il quarto film queste cose le aveva ben intese e ci aveva regalato momenti visionari E demenziali insieme, questo molto meno.
Ma il cambio di mano porta anche a scelte creativamente più evolute. Ci sono idee interessanti che attingono all’immaginario avventuroso del novecento in modo più studiato. Se nei vecchi film la quest archeologica veniva velocemente esposta all’inizio, e l’oggetto di turno scatenava il suo potenziale solo negli ultimi minuti, rivelandosi poco più di un mcguffin, qui c’è di più: i personaggi ragionano a più riprese sull’indagine, la sviscerano, ne discutono, lavorano in modo attivo e il quadrante di Archimede rimane sempre in primo piano. E in generale è stato fatto un lavoro approfondito su tutto il cast: personaggi come Sallah non si limitano ad essere funzioni narrative ma si fanno sentire di più. Persino le questioni legate alla famiglia di Jones, che sulle prime sembravano liquidate male per prendere le distanze dal capitolo precedente, nel corso del film acquistano un senso per l’economia della storia.
Infine un applauso a Williams, per esserci stato, fino alla fine. Grande e incrollabile la qualità del suo lavoro, ma anche l’atteggiamento. Laddove certi si sottrarrebbero dando al pubblico la percezione che esistano film più legit di altri, col suo apporto uniforme a queste saghe questo genio di 91 anni si dimostra forse il più grande uomo marketing che hanno lì dentro.