Con Andor ecco che Star Wars torna a ricevere il plauso della critica. La percezione, quantomeno ad osservare la mia bolla, è quella di un grande “finalmente”. Finalmente il brand si misura con uno standard qualitativo e un modello di scrittura in grado di competere per davvero con il grande cinema. Finalmente non c’è più da vergognarsi a vedere Star Wars. Finalmente se ne può parlare online senza essere travolti dalla nube di negatività tossica che non ci abbandona dal 1999.
E poi ci sono io, che osservo tutto da un lontano scoglio e mi sento più confuso che altro.
Perché a me Andor è sembrato tutt’altro che un capolavoro, ma un prodotto intrinsecamente “rotto”, pur presentando elementi che presi da sé ritengo bellissimi.
Provando a fare un po’ d’ordine.
PRO:
– Il comparto visivo. Luci, palette cromatica, fotografia, composizione dell’immagine, scenografie. Vetta del franchise e qui c’è poco da discutere.
– Mon Mothma, Luthen Rael, Saw Guerrera, Kino Loy, Maarva Andor, Dedra Meero, Syril Karn. Figure “grosse”, con interpretazioni sentite, drammatiche, a tratti grottesche. I tanti volti dell’Impero e della Ribellione, narrati attraverso attori in grado di farti sentire tutta la loro gravitas appena entrano in scena.
– I monologhi. Ne avrò contati almeno cinque di notevoli. Roba pesa, ma davvero. C’è fomento e c’è l’acume di mostrarti una situazione politica finora narrata in modo leggerino con un grado di profondità che finora si è visto solo in certi romanzi.
– Il far trasparire la cultura dei diversi posti visitati. Il funerale dei mattoni su Ferrix, le usanze carcerarie, la Coruscant diurna, l’occhio su Aldhani, la località vacanziera, il bigottismo Chandrilliano. Tutta la profondità della galassia raccontata davvero come si deve, attraverso dettagli.
CONTRO:
– Il protagonista. Diego Luna non funziona, il suo personaggio è spento, poco interessante, si fa mettere in ombra da qualsiasi altra cosa su schermo. E questo era ben chiaro da Rogue One. Aver insistito e avergli cucito addosso un progetto simile, così ambizioso è stato a dir poco criminale. Non funziona lui e non funziona praticamente niente che lo riguardi, e nell’economia generale questo pesa. Se nella serie Andor qualsiasi altra trama o personaggio su schermo risulta più interessante di Cassian Andor, forse qualche problema c’è.
– L’azione in cui Cassian viene coinvolto è molto generica. Passi l’evasione, davvero bella, ma guerriglia urbana e colpo grosso mi sono parsi stratagemmi non proprio memorabilissimi a cui dedicare trittici di episodi. Oltretutto l’approccio verista potrà far bene alle scene a Coruscant e un po’ a tutto quello che aveva bisogno di approfondimento, ma applicato all’azione pura… boh. Se togli la locura cosa rimane? Un freddo action movie? Volevamo questo?
– Musica non pervenuta. E parlando di Star Wars mi pare gravino.
– La struttura. Dodici episodi così lunghi, strutturati ad archi di tre (o quasi), per questa storia mi paiono tanti, soprattutto perché non stiamo davvero affrontando la nascita della Ribellione, ma ne stiamo vedendo squarci attraverso la storia di un singolo ribelle, nemmeno troppo rappresentativo. E cmq sappiamo già che raddoppieranno con la stagione 2. Sarebbe stato preferibile un progetto un po’ meno sbilanciato, o comunque più contenuto. O magari più lungo ancora, ma più corale ed esaustivo.
– Svariati momenti boh. Questo potrebbe essere un problema di scrittura, di regia o anche di montaggio. Fatto sta che di molte sequenze si fatica a trovare il senso o cmq non girano come dovrebbero. Ci sono momenti wtf che probabilmente sono consapevolissimi e cercano in qualche modo di essere lynchani, riuscendoci (la telefonata in cui Syrill non capisce niente, e praticamente tutto ciò che lo riguarda… data anche la sua somiglianza con Cooper). Ma altri, tantissimi altri, sembrano semplicemente roba inefficace e buttata lì. Buona parte dei finali di episodio sono brevi stacchi con Cassian che fa cose mentre la musica cresce d’intensità. Tutto il primo episodio è incentrato su Cassian che va a trovare gente che sa lui, senza che lo spettatore se ne senta davvero parte. Il finale del settimo, ambientato al mare non si sa quanto tempo dopo, sembra il girato di una candid camera che era rimasta attaccata per sbaglio al rullo precedente. A volte si hanno delle inquadrature lampo su personaggi che fanno facce intense senza che la narrazione supporti per davvero la cosa. Altre volte invece ci si concede lunghi e verbosi monologhi in cui si espongono tecnicismi inutili e difficili da metabolizzare, funzionali solo alla trama. Spesso bisogna tornare indietro per capire briefing che non ha nemmeno troppo senso capire. Per due episodi si espone minuziosamente la trappola tesa a un ribelle di nome Anto Kreegyr e il tutto si risolve dietro le quinte con un potentissimo lo dimo. O sono io che non mi trovo per niente in sintonia con l’idea di scrittura di Gilroy e non apprezzo il suo essere criptico, o per davvero qualcosa non funziona.
Insomma, hanno provato a fare lo Star Wars verista. Ma, come dicevo sopra, questa è una lama a doppio taglio.
Lo Star Wars verista funziona applicato agli elementi già noti. Coruscant, il Senato, l’ISB, Mon Mothma, Yularen, persino la Morte Nera ci guadagnano da questo. Acquisiscono sfaccettature nuove e diverse, e nella tensione tra il volerle migliorare ma renderle anche riconoscibili si ottiene qualcosa di magnetico e interessante.
Lo Star Wars verista non funziona più quando applicato agli elementi introdotti da zero. Lì quella tensione viene meno, non c’è più una rassicurante skin a salvarla e il prodotto deve cavarsela da solo. E non è detto che ce la faccia, non sempre almeno.
Ma la vera verità è che per quanto un’operazione del genere possa dare un risultato apprezzabile, cosa che Andor generalmente è, rimane sintomo di un qualcosa che si è inceppato. In Star Wars, in noi, nel nostro panorama culturale.
Se per essere finalmente in pace con Star Wars dovevamo semplicemente aspettare che qualcuno lo spogliasse del suo linguaggio e lo facesse finalmente “crescere” significa che sotto sotto Star Wars non è mai stato davvero ‘sto granché, o non ci è mai *davvero* piaciuto nella sua interezza. E forse dovevamo semplicemente lasciarlo andare, non ritenerlo quel must culturale che la cultura nerd ha imposto a sé stessa.
Perché non è mai un buon segnale quando un brand inizia a ramificarsi, a parlare più linguaggi contemporaneamente, a rivolgersi a fasce di pubblico incompatibili tra loro. Non è mai un bene quando all’interno di una stessa saga si affermano scuole di pensiero e di scrittura opposte. Non fa bene al brand e non fa bene nemmeno al pubblico che si ritrova involontariamente diviso in fazioni. Molto meglio è trovare il punto di equilibrio, e fare in modo che le cose belle scoperte da una corrente, finiscano per “nutrire” lo stile generale, potenziandone l’identità.