L’Isola del Tesoro

Su Topolino #3094, #3095 e #3096 sono state pubblicate le tre parti dell’Isola del Tesoro, trasposizione disneyana dell’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson ad opera di Teresa Radice e Stefano Turconi.

Una volta completata la pubblicazione della storia, abbiamo raccolto le domande nate sul topic di Topolino relative a curiosità e dietro le quinte di questo progetto.

Siamo lieti di presentarvi le risposte che Teresa e Stefano ci hanno rilasciato, e cogliamo l’occasione per ringraziarli nuovamente della disponibilità e dell’affetto dimostrato.

Capitano Amelia: Mi ha colpito molto la scelta di aver ripescato Ser Lock: avete già accennato su Topolino che vi fu difficile trovare un corrispettivo topolinesco per il capitano Smollett, però avete pensato a qualche altro personaggio per questo ruolo prima di “assegnare la parte” a Lock o è stato lui l’unico che ha sbloccato la situazione?

Ste: Se non ricordo male siamo stati in dubbio se dare la parte a Orazio, che tra l’altro è un nome perfetto per un capitano della marina inglese (c’è Horatio Nelson, e Horatio Hornblower, un capitano protagonista di una serie di romanzi) ma poi sarebbe rimasto scoperto il ruolo del dottore, che invece era perfetto per il nostro Orazio. Io mi ricordavo di Ser Lock per qualche storia della mia infanzia: era inglese, compassato, pasticcione (questo lato l’abbiamo messo da parte per l’occasione) insomma, era perfetto! E, comunque, se avessi inventato da zero il personaggio, credo che l’avrei disegnato press’a poco nello stesso modo.

Capitano Amelia: Ho notato che Lockett ha la faccia bianca mentre nelle storie straniere pubblicate negli anni ’80 era rosata. Come mai questo cambiamento? Per uniformarlo a Jim, Livsey e Ben Goof o per altri motivi?

Ste: Ops, a questo dettaglio credo di non aver fatto proprio caso, ora che ci penso, nelle copertine ho colorato di rosa anche le facce di Topolino e Pippo, mentre negli interni sono bianche, temo di avere le idee un po’ confuse in materia…

Capitano Amelia: Oltre al romanzo originale, vi siete fatti ispirare anche da qualche trasposizione cinematografica o vi siete basati unicamente sul libro senza influenze filmiche?

Tere: In casa andiamo tutti matti per Il Pianeta del Tesoro Disney, lo conosciamo a memoria. Sarebbe una bugia dire che quelle fantastiche atmosfere non ci hanno influenzato. Però la nostra scelta primaria, da subito, è stata quella di un adattamento il più possibile fedele al romanzo di Stevenson. Ecco perché ho voluto iniziare la storia con le parole dell’autore. Ed ecco perché il rapporto tra i “nostri” Jim Topkins e Long Pete rimane in un certo senso più ambiguo di quello – meraviglioso, peraltro, e irresistibile – che nasce nel cartone tra Jim e il Silver cyborg.

LBreda: Teresa, quali sono state le difficoltà nel sovrapporre a personaggi già esistenti altri personaggi già esistenti? Tra le varie parodie recenti, che vantano tutte il mancato uso di stratagemmi ormai banalotti come quello dello spettacolo teatrale, trovo che questa sia quella che riesce a snaturare meno tanto l’originale quanto i personaggi Disney.

Tere: Grazie. Ma sarò sincera: non ho trovato grandi difficoltà nell’amalgamare i due mondi. I personaggi Disney sono così fantasticamente malleabili da poter interpretare con naturalezza qualsiasi ruolo! Adoro Stevenson da sempre, e ovviamente adoro il mondo Disney e, come ho detto altrove, più che una difficoltà è stato un onore fare incontrare tra loro queste due realtà. Gamba è un Silver nato, dare al Topo la parte di Jim mi permetteva di renderlo finalmente spensierato, ragazzino, spettinato e avventuroso al limite dell’imprudenza, come piace a me. Pippo-Ben Goof è praticamente venuto fuori da solo e la “doppia personalità” non mi pare abbia snaturato la sua adorabile pipposità. Insomma, è stato un onore, davvero. E un gran divertimento!

Bramo: Teresa. Il rapporto tra Jim e Silver va oltre il conflitto tra rivali, nel romanzo di Stevenson, e questo aspetto viene riportato anche nella vostra trasposizione. Trovi che sia un elemento valido anche per Topolino e Gambadilegno?

Tere: Oh, sì, è così che mi piace immaginarli: nemici che però in un certo senso si stimano, che riconoscono comunque le cose buone dell’altro. Gamba non è il cattivo assoluto come Macchia Nera (io poi ci casco lo stesso, però… perché mi piace un sacco anche Macchia e finisco per trovare anche a lui i punti deboli, per infilargli un cuore tenero dietro la crosta croccante… come in Pippo Reporter – e non avete ancora visto tutto 😉 ). Certo, Gamba e il Topo non sono compagnoni, ma possono trovare momenti condivisi da cui trarre entrambi cose preziose. Poi ognuno per la sua strada, eh. Ma senza rancore.

Bramo: Stefano: avendo la possibilità di sbizzarrirti nella scelta della fauna che sarebbe andata a comporre la ciurma di pirati, hai fatto dei ragionamenti particolari che ti hanno portato a scegliere animali più “minacciosi” (per essere in parte) o ti sei fatti guidare da altri parametri?

Ste: Nella creazione dei pirati mi sono divertito un mondo, credo si veda. La scelta è stata, in effetti, di cercare animali dall’aspetto minaccioso: c’è un gorilla, un diavolo della Tasmania, una iena, un marabù (una grossa cicogna carnivora), un coccodrillo, e il mio preferito, un serpente corallino (un piccolo serpente sudamericano, velenosissimo). Sul serpente ero titubante, mi sono chiesto: “non sarà troppo?” poi ho provato a muoverlo, a farlo recitare, e funzionava alla perfezione! All’Accademia Disney, tanti anni fa (19, perbacco…) mi insegnarono una cosa, a questo proposito: si possono usare animali diversi dai soliti paperi e cani, l’importante è che la loro “animalità” non superi la loro “umanità”, vale a dire che non devono essere animali travestiti da persone, ma persone in forma di animali. È una distinzione sottile, e non sono sicuro di saperla spiegare in maniera comprensibile, diciamo che, vedendo l’equipaggio della Brasileira, la prima cosa cui bisogna pensare è: “è una ciurma di pirati” non “è uno zoo”. La sfida è ottenere questo effetto con animali sempre più insoliti.

Bramo: Teresa. Ben Goof: l’originale Ben Gunn sembra cucito addosso al nostro Pippo! Che lavoro di adattamento hai dovuto fare per unire in un’unica incarnazione i due personaggi?

Tere: Guarda, come ho detto poco sopra, il lavoro mi è venuto molto naturale. Pippo ha fatto tutto da solo! Ben Gunn è uno “strambo”, Pippo pure, e io personalmente sono un’accanita sostenitrice degli “strambi” e dei “controcorrente”, di chi persegue ostinatamente la propria strada – senza fare male a nessuno, sia chiaro – nonostante le dicerie degli altri. La naturale bontà di Pippo, poi, fa sì che Ben Goof sia più candido e naif del suo alter ego stevensoniano: non si è nemmeno accorto della vera fine che hanno fatto i sei compagni che, come lui, scesero dalla Walrus per sotterrare il tesoro, attenendosi agli ordini del capitano Blot! Eppure… avete contato il numero degli spari a pag. 30 del secondo tempo? Ben li scambia per “segnali d’adunata”, lui anima bella!

Bramo: Stefano. L’aspetto di Ben Goof è straordinario: il buon Pippo è riconoscibilissimo, ma alcuni elementi come la barba e il ciuffone sono elementi creati per il ruolo. Come ti sei approcciato al look e all’estetica di Ben Goof?

Ste: Nella mia mente Ben Gunn aveva un aspetto ben preciso: barba e capelli lunghi ispidi e scompigliati, abito di stracci, occhi un po’ spiritati. Era raffigurato così nell’edizione de L’isola del Tesoro che lessi da ragazzino, e così è sempre rimasto nella mia testa, non potrei immaginarlo in nessun’altra maniera. Gli ho giusto aggiunto il cappello di pelo, anche quello preso dalle illustrazioni di un altro naufrago della mia infanzia: Robinson Crusoe, (della stessa collana dell’Isola, tra l’altro).

Bramo: Teresa. A Plotty Bones gli si vuol bene: da dove è nata l’idea di dargli quell’epilogo tutto per lui, unico vera “extra” rispetto alla fonte originale?

Tere: Ti ringrazio davvero per questa bella domanda, che tocca un personaggio e dei passaggi della storia a me molto cari. La figura di Plotty, in effetti, è forse quella che più si discosta dall’originale, in primo luogo perché… non muore. E qui so bene di essermi attirata non poche smorfie di disapprovazione, ma ero e sono tuttora convinta che la strada del “nostro” Bones dovesse essere questa. Sarà che ho scoperto di avere un debole per gli omaccioni massicci e imbronciati che nascondono lati di un’umanità e una tenerezza impensabili (ok, per questo – scusate la pubblicità – vi rimando anche al mio folle innamoramento più recente, vale a dire – Ste a parte, eh eh – il ruvido capitano MacLeod de Il Porto Proibito), ma appena ho messo in scena Plotty Bones, con quel cappottone, il passo pesante e il baule, ho capito subito che… non ce l’avrei mai fatta a toglierlo di mezzo per sempre. Nel romanzo, Bones è un tramite, è colui che innesca la vicenda, che dà il via alla ricerca. Fatto questo, il suo compito è terminato e non serve più. Il nostro Bones, invece, è – dal momento in cui mette piede all’Admiral Benbow – un po’ il precursore di Silver nel suo rapporto con Jim. Topkins lo teme, ma ne è anche affascinato: l’alone di mistero che lo circonda lo rende irresistibilmente attraente e spaventoso al tempo stesso; Jim adora i suoi racconti, e in un certo senso lo protegge dall’arrivo del cieco Puah, finché gli è possibile. Così, essendo diventata io stessa Jim per buona parte della scrittura, come potevo pensare di disfarmi di Bones per fregargli la mappa? Gli ho dato un sogno più grande, un obiettivo “assurdo” per un pirata, qualcosa che ne facesse – e torniamo agli “strambi”, ai “controcorrente” – un “diverso”, ma convinto e contento di esserlo. Nonostante quello che ne pensano gli altri, nonostante le dicerie e i sentieri già fissati. Ed ecco il perché di quel finale “alternativo” tutto dedicato a lui, all’omone che va avanti nonostante tutto… e nonostante tutto ce la fa. “TU SEI… CHI SCEGLI E CERCHI DI ESSERE!” dice Dean a Hogarth nel meraviglioso Il Gigante di Ferro. E il gigante, nato per essere arma, s’immola per salvare gli umani, perché dentro al suo cuore (di ferro) desidera essere come Superman (perdonate lo spoiler, vedetevi il film, è stupendo!). “NON HO VOLUTO UCCIDERE UN DRAGO, e allora?”, sbotta Hiccup con Astrid in Dragon Trainer. Qui è lo stesso: NON HO VOLUTO uccidere Plotty Bones, ok? E non perché avessi paura di farlo morire; e -checché se ne dica- la trasposizione non evita affatto i riferimenti alla morte. Ma non ci stava qui, la morte di Bones. Non per me, almeno. Mi aveva acceso dentro troppo affetto… per salutarlo così presto 🙂 .

Bramo: Stefano. Ho notato che in questa storia spesso ci sono tavole formate da 4 o 5 strisce, con le vignette lunghe ma basse: si è trattata di una scelta grafica e stilistica consapevole? Cosa volevi comunicare in quelle pagine?

Ste: La gabbia di Topolino, così regolare, a volte devo ammettere che mi sta un po’ stretta, quindi, dove posso, ci “gioco” un po’, modificando la forma delle vignette, a seconda di quello che voglio raccontare o della sensazione che voglio trasmettere: vignette lunghe e strette danno un’idea cinematografica, con campi molto lunghi; una verticale “ardita” può dare un’idea dinamica; il tutto, però, senza esagerare. Giovan Battista Carpi mi disse: “Qualsiasi cosa tu voglia raccontare lo puoi fare in una normale vignetta rettangolare, al cinema lo schermo non cambia forma a seconda di quello che succede!”. Chiaramente il linguaggio del fumetto si evolve, la “gabbia” della tavola diventa più libera e dinamica, ma credo che tenere presente quel principio eviti, diciamo così, di “sbarellare”: la leggibilità è fondamentale: il fumettista non fa bei disegni, racconta una storia.

Bramo: Teresa. Terzo tempo, tavola 10: il giovane protagonista ottiene una vittoria personale mettendo a frutto le lezioni di navigazione apprese dal proprio ex-mentore. È uno snodo importante nell’ottica di un racconto di formazione: tu e Stefano avete ritenuto importante anche l’elemento del racconto di formazione nella vostra riduzione?

Tere: Be’, L’Isola del Tesoro in fondo È un romanzo di formazione, no? È l’iniziazione di Jim alla vita adulta, il suo partire dai luoghi che gli fanno da nido per esplorare l’ignoto, capire qual è la sua strada, tracciare la sua personale rotta nella vita. Sono affezionata al passaggio che citi, perché ti dice come l’incontro con qualsiasi persona – anche un malvivente truffaldino come Silver – possa lasciarti qualcosa di buono, qualcosa che è il vero tesoro, che ti porti dentro e nessuno ti potrà mai rubare.

Bramo: Teresa&Stefano. Quando avete capito che L’Isola del Tesoro sarebbe potuto essere un romanzo adatto per una trasposizione a fumetti disneyana? E quando siete giunti alla conclusione che la mossa vincente era quella di attenersi il più fedelmente possibile al testo?

Tere & Ste: Capito subito. Sperato fortemente di poterlo realizzare. E gioito immensamente per averlo potuto fare. Non sappiamo se si possa parlare di “mossa vincente”, ma di certo ci abbiamo goduto un mondo, ci siamo divertiti, abbiamo voluto bene a questi personaggi, a questa storia. Speriamo si sia sentito.

Giona: La vignetta in cui Long Pete, alla fine, si rivolge “idealmente” a Jim sarà un congedo definitivo dal personaggio oppure si può sperare che i personaggi torneranno in un sequel, che a questo punto avrebbe un soggetto originale e non sarebbe più una diretta parodia di un’opera letteraria?

Tere & Ste: Ci spiace deluderti, ma non abbiamo mai pensato a un seguito. Quella vignetta sta a significare che Silver non ha dimenticato il piccolo Jim e, a modo suo, gli ha voluto bene, anche se poi ha preso una strada tutta diversa.

Fear Tear: Io avrei delle perplessità riguardo il terzo episodio che spero mi vengano chiarite.

Il fatto che Lockett, Horatio e Basettowney hanno definito Jim “disertore”, “che si arrangi da solo” eccetera… lo pensavano veramente, o è stato un gesto per proteggerlo dai pirati?

Il dubbio mi viene perché, se lo pensassero veramente, avrebbero dovuto cambiare idea dopo aver scoperto che Jim è riuscito a sabotare i pirati nascondendo la nave… invece dalle riflessioni di Jim (da pag. 32 a pag. 40) sembra che ce l’abbiano ancora con lui.

Tere: Il passaggio a cui ti riferisci è in realtà la bugia che i pirati raccontano a Jim dopo averlo catturato. Una bugia astuta e crudele, che infatti tortura il ragazzino per un bel po’, poi; tant’è che, anche mentre cammina legato verso il luogo del tesoro, non riesce a non continuare a pensare a quelle accuse. È Jim che “si fa un film” sull’astio che capitano, conte e dottore provano nei suoi confronti. Un film innescato dalla calunnia di quel furfante di Silver.

Fear Tear: Come mai i pirati, quando scoprono che al posto del tesoro c’è solo una buca vuota, se la prendono immediatamente con Silver e Jim (pag. 31)? La mappa gliel’ha consegnata Lockett in cambio della libertà, avrebbero dovuto pensare che gli fosse stata data una mappa fasulla (o almeno, questo è quello che ho pensato io alla prima lettura)…

Tere: Perché è stato Silver a guidare la spedizione, a radunare l’equipaggio e trascinare tutti verso l’Isola del Tesoro. È stato Silver a promettere ai suoi il bottino, e quelli son pirati, mica vanno per il sottile: Silver un attimo prima è osannato e un attimo dopo è il capro espiatorio (il che non è molto diverso da quel che succede nella vita di tutti i giorni nei confronti di chi ha qualche responsabilità…).

Fear Tear: Se lo ha slegato e gli ha anche dato una pistola per difendersi, perché Jim (pag. 34) continua a dubitare dell’affetto di Silver?

Tere: Magari perché poco prima ha detto ai suoi di tenerlo ben stretto e ha promesso di dargli quel che si merita, una volta trovato il tesoro? O magari perché si era presentato come un onesto cuoco menomato in battaglia, e poi è saltato fuori che è un pirata che mira solo al bottino? O magari, ancora, perché Jim ha sentito con le sue orecchie (e non sono neanche tanto piccole!) Silver promettere ai suoi di far fuori lui, il dottore, il capitano e il conte, una volta sull’isola? Jim ha un’infinità di motivi per non fidarsi di Silver. Il suo cuore vorrebbe fidarsi, vorrebbe credere all’assoluta buona fede del pirata, ma i fatti dicono il contrario, ed è questo che fa star male Jim e lo amareggia. L’ambiguità di Silver è la vera forza del personaggio, è quel che in assoluto più ci affascina di lui.

Fear Tear: Infine, perché Lockett ha intenzione di arrestare Silver, definendolo addirittura un “inqualificabile bugiardo e mostruoso impostore” (pag. 35) nonostante sia passato dalla loro parte, abbia tradito gli altri pirati e abbia salvato la vita a Jim?

Tere: Perché resta comunque un fuorilegge, che probabilmente è “passato dalla loro parte” per opportunismo. Lockett è un capitano, si suppone ne abbia viste di cose, ne abbia conosciuta di gente, si suppone sappia farsi un’idea di chi ha di fronte. E non si sbaglia su Silver: è un lestofante e appena può, infatti, poi taglia la corda.

Valerio: Terefano. Ci fate una mappatura completa del pedigree animato alla base di quest’opera? Tutto ciò che di filmico avete assorbito, riversandosi poi nel prodotto finito in termini di ispirazione grafica e contenutistica. Domanda che in verità non vale solo per quest’opera, ma si estende a “qual è la pappa che bisogna mangiare per crescere sani, forti e turconici?”

Tere & Ste: Mamma mia! Ci stai chiedendo cosa sta dietro la nostra Isola? Il pedigree non è soltanto animato, è l’infinito materiale marinaresco di cui ci siamo nutriti negli ultimi anni, e che serviva primariamente – perdonate di nuovo il piccolo spazio pubblicitario, ma è la verità – a tuffarci nelle giuste atmosfere per raccontare l’altra nostra grande (in termini di mole, oltre 300 pagine!) avventura di mare, in arrivo a fine aprile per Bao Publishing: Il Porto Proibito.

L’Isola del Tesoro ha beneficiato a grandi mani di questo sovrabbondante lavoro di documentazione: due viaggi in Inghilterra, tra navi, porti e musei, su e giù per fari e scogliere a scattare foto, annusare l’aria, scribacchiare pagine fitte di “appunti emozionali”. Valigie stracariche di libri acquistati in loco, il ciclo completo dei romanzi di O’Brian, e poi Il Pianeta del Tesoro e Sinbad visti e rivisti e rivisti insieme a Dragon Trainer e a Master And Commander, le cui colonne sonore si sono consumate a furia di ascoltarle… e continuano a darci i brividi.

Dietro L’Isola e Il Porto (citiamo insieme queste due storie, perché la Tere le ha scritte in successione: prima il soggettone infinito del Porto, poi il primo viaggio tra Devon & Cornwall, poi L’Isola del Tesoro sceneggiatura completa, poi di nuovo il Porto, da tavola 1 alla 300; e Ste le ha disegnate contemporaneamente: dal brigantino Brasileira alla fregata Explorer, dal bottino della Cartagena al tesoro della Walrus) ci sono decine di sea shanties (canti marinareschi che aiutavano a scandire i tempi del lavoro sulle navi mercantili) cantati a tavola insieme ai bambini, ci sono le maglie a righe comprate ai mercatini, c’è un vecchio cappello da carabiniere trasformato in cappello da ufficiale di Marina inglese con tanto di bottone con lo stemma giusto del Re, e c’è una nave ancora in costruzione, un modellino naturalmente, che sta crescendo tra le mani di Ste e diventerà la copia della fregata Last Chance del capitano MacLeod (sì, quello di cui la Tere è follemente innamorata, non gliene voglia Rebecca). Non solo film, quindi, ma anche viaggi, scoperte, letture, musica, emozioni. Tutto questo c’è, dietro L’Isola del Tesoro, dietro Il Porto Proibito. E forse la “ricetta” che cerchi ha un solo ingrediente, semplice semplice: chiamalo entusiasmo, chiamala passione, chiamala follia.

Amare quello che fai, quello che racconti. Essere grati dell’immensa fortuna di fare questo mestiere. Sentirne il piacevole peso, e l’opportunità. Godere di ogni nuova scoperta, desiderare andare sempre un po’ più in là. Vivere in simbiosi coi personaggi: gioire con loro, piangere con loro, attendere, sperare, arrabbiarsi, esultare con loro. Fino alla fine. Che ti lascia sempre un po’ stranito, perché è una specie di addio. È affidarli al mondo, e non sai mai il mondo cosa ne farà, di loro. Vorrà loro bene? Li strapazzerà? Li ignorerà? Non è più nelle tue mani, questo. E tu che sei stato per mesi – o per anni – loro compagno di navigazione, ora torni a terra, in attesa struggente di poter salpare di nuovo. Altre avventure, altre storie, altri incontri: altre partenze, e poi altri addii. Non è così anche la vita?

Valerio: Tere. Dacci, nei limiti del possibile, un assaggio di cosa dovremo aspettarci di vostro sulle pagine del Topo, da qui in avanti. Ci sono altri romanzi che vi piacerebbe far entrare nel novero delle Nuove Parodie?

Tere: Tanto per cominciare, ci sono in giro ancora due episodi di Pippo Reporter, gli ultimi.

Poi arriverà una miniserie “paperesca” ed itinerante in cinque episodi, ambientata negli Stati Uniti di metà anni ’70 e ispirata dalla musica dell’epoca, Ducks on the Road: Stefano sta disegnando la prima puntata, io sto per iniziare a sceneggiare la quinta. Non avrà l’epicità dell’Isola, ti avverto, ma sarà totalmente folle, insolita, sperimentale. Ci piace rischiare cose nuove.

Quindi, abbiamo avuto l’ok da Valentina [De Poli, n.d.r.] per un secondo adattamento, sempre di un romanzo ottocentesco, sempre dal Regno Unito (ebbene sì, sono patita di “inglesume ottocentesco”, in poesia e in prosa: e qui mi tocca tirare di nuovo in ballo il Porto, perché anche lì…); questa sarà un po’ una sfida, perché non si tratta di un romanzo d’avventura, e avrà come protagonisti i paperi.

Guardando ancora più lontano, stiamo cominciando a “macchinare” qualcosa che in un certo senso “prenda il posto” di Pippo Reporter: c’è un embrione d’idea che appassiona entrambi, ed è un’idea topesca. Può bastare? 🙂

Valerio: Stefano. Ma parliamo un po’ del tuo Calisota multietnico. Nel corso dei decenni si sono diffusi a Paperopoli e Topolinia quasi esclusivamente canidi e paperi. Con te però è diverso. Pensi che la cosa rimanga una tua bizzarria o possa diffondersi anche in futuro, fino a rendere le due città popolate effettivamente da animali antropomorfi?

Ste: La multietnicità è una delle cose che più mi piacciono del nostro tempo, credo sia un enorme arricchimento per le nostre stanche società occidentali. In questo caso però non parlerei di multietnicità, gli animali diversi non rappresentano gruppi etnici ma caratteri, personalità differenti. Se tra i pirati c’è un gorilla io non penso: “quello è un gorilla, del popolo dei gorilla, che abitano in un quartiere di gorilla” ma “quello è un bestione minaccioso, meglio girare al largo”. Come dicevo prima, l’animalità non deve superare l’umanità. Per citare un film (Kung Fu Panda), ho sempre trovato geniale il fatto che il padre del panda Po sia un’oca! E che nessuno si ponga minimante il problema (nel brutto seguito del film la cosa viene spiegata, ma tant’è, i seguiti in genere son così…). Sul fatto che possa o no diffondersi questa tendenza non saprei, a me personalmente piace molto. In generale, sin da piccolo, ho sempre amato disegnare gli animali, magari capirne anche qualcosa (ho sempre letto molto sull’argomento) e un giorno mi piacerebbe cimentarmi nell’illustrazione naturalistica, anche se è un genere, purtroppo, in via d’estinzione.